"Il Signor Parolini" (terza parte)

(di Gregorio Vella)
15/12/17

 

  • Bene Parolini, siamo a buon punto. Domani ho da fare dell’altro e non possiamo finire; se per lei va bene ci possiamo vedere dopodomani, all’ingresso della terza zona verso le otto e un quarto.

  • Per me va bene, così questo pomeriggio lo dico al mio capofficina. C’è rimasta mezz’ora per tirare fuori le ultime cartine e andare a pranzo. Le andrebbe di andare a vedere una cosa nel deposito 11/H?

  • Certo, di cosa si tratta? All’11/H non mi risulta niente!

  • Lo so, ci sono solo alcune centinaia di spolette da 76 da retrofittare ed un bel po’ di cartucce calibro 20/70, sa quelle da alienare; non so se le ha viste, sono cartucce con l’aquila e la svastica stampigliate sul bossolo e sui contenitori, residuate dell’ultima guerra ed ancora in ottimo stato dopo più di trent’anni, io dico che sono pure meglio di quelle che fa la SNIA; vedesse i grani della polvere, grafitati perfetti. Fino ad un paio di anni fa le usavano per i tiri di confronto, perché avevano una stabilità balistica eccellente, poi qualcuno ha detto che forse non sta bene usare cose con la svastica. Io non vedo che male ci sia; abbiamo ancora tanto munizionamento americano e per quello nessuno dice niente. Però quello che le voglio fare vedere è un’altra cosa; diciamo che è sempre un esplosivo conservato sfuso, come quello dei contenitori di oggi, solo che…. non è chiuso: Beh! Venga a vedere e se lo riterrà opportuno, suggerisco di farci il saggio pure a quello lì, però le debbo chiedere prima se soffre mica di pressione bassa, …poi le spiego…

  • Pressione bassa? Ma che c’entra? Comunque non mi pare, faccio due o tre donazioni di sangue all’anno e mi controllano tutto, finora l’hanno sempre trovata giusta.

Il deposito 11/H, che si trovava sul margine ovest di una zona distante, era insolitamente stretto e lungo; l’illuminazione dell’impianto elettrico antideflagrante era decisamente fioca e si avvertiva un odore un po’ diverso da quello degli altri depositi, oltre all’odore di fondo di umido e di chiuso, se ne sentiva anche come di colofonia, leggero e non sgradevole.

  • Ascolti Gregorio, se si dovesse sentire “strano”, come stanco, non esiti ad uscire e sedersi fuori; tempo fa uno dei nostri è quasi svenuto. E’ per via di particolari esteri nitrici che emanano dal grano, sono vasodilatatori e fanno abbassare la pressione. Le confesso che a volte ci vengo a scopo terapeutico, mi aggiusta la pressione meglio delle pillole. Ecco, prepariamo un paio di cartine mettiamole sopra il grano e considerato che non è chiuso, se è daccordo gli diamo più di un’ora di esposizione, passo io nel pomeriggio a vedere se le cartine hanno marcato.

  • Il grano? Che grano?

  • Questo, ma non lo tocchi!

Eravamo arrivati in fondo al deposito dove, transennata alla meglio, si trovava una grossa e robusta cassa di legno, alta quasi due metri con la parete frontale divelta in due punti. All’interno, bloccato dalla carpenteria di legno costruitagli attorno e parzialmente avvolto in pesante carta cerata giallo ocra, si intravedeva un grande cilindro di colore rosso scuro, il diametro era poco meno di un metro per oltre un metro e mezzo di altezza, la consistenza a vedersi sembrava come di plastilina e l’odore di colofonia si era fatto più deciso. Aveva un foro a sezione stellata al centro, che attraversava il cilindro in tutta la lunghezza, ed in più punti sembrava bucato come se l’avessero carotato a più riprese per asportare dei campioni.

  • In gergo tecnico chiamano “grano” qualsiasi configurazione solida geometrica di esplosivo di lancio o di propellente, dai cilindretti solenite di pochi millimetri del calibro 13,2, fino a questo coso qui. Questo grano è il motore di un missile. Ha mai sentito parlare di “Polaris”?

  • Mi pare, se non sbaglio furono i primi missili strategici americani lanciati da sottomarini. Agli inizi degli anni sessanta. A quei tempi ero un bambino.

Chissà perché parlavamo tutti e due sottovoce.

  • Proprio così, la prima versione montava un motore come questo ed aveva una gittata di quasi duemila chilometri, con delle dimensioni abbastanza contenute, meno di sette metri di lunghezza, quindi adatte per essere imbarcato. La spinta la davano la combustione in sequenza di due grani come questi qui; infatti era a doppio stadio, il primo più “vivace” come booster ed il secondo da crociera. Il difficile era combinare le dimensioni più ridotte possibile, adatte ai pozzi di lancio di un sottomarino, con il “contenuto militare” che il missile doveva trasportare, che nel caso del Polaris era una testata nucleare.

L’avrà studiato a scuola la storia che all’inizio degli anni sessanta la guerra fredda era al massimo della tensione e i due blocchi si fronteggiavano e non badavano a spese per superarsi in qualità e quantità di armamenti. L’Italia, la Marina Italiana, volle fare la sua parte (eravamo da poco nell’Alleanza Atlantica e cercavamo di fare bella figura) e con un autentico colpo di genio elaborò un progetto per imbarcare la rampa di lancio di quattro Polaris a bordo dell’incrociatore Garibaldi; bella nave della ex Regia Marina, classe “condottieri”, sopravvissuta alla guerra ed ai passaggi di proprietà, per i danni di guerra che avevamo pagato da sconfitti. A Spezia in Arsenale avevano fatto un gran bel lavoro, la nave fu rifatta quasi completamente, ammodernandola e diventò il primo incrociatore-lanciamissili in ambito europeo, imbarcando anche gli allora modernissimi missili Terrier; rimase nostra Nave ammiraglia per parecchio tempo, fino all’entrata in servizio dei Doria.

  • Lo sa che quello che rimane del vecchio Garibaldi m‘è capitato di vederlo un paio di settimane fa, galleggia ancora, anche se a malapena e quasi del tutto privo di sovrastrutture, al pontile Pagliari verso San Bartolomeo; ha messo tristezza a me che non c’entro niente, immagino come si sentiranno stringere il cuore vedendolo così, quelli che ci sono stati imbarcati, vivendoci un po’ della loro gioventù. Ma che esperienza aveva l’Italia di missili strategici negli anni cinquanta?

  • Nessuna, ma come spesso ci capita, suppliamo alla mancanza di esperienza, a volte di rigore intellettuale e, soprattutto, di risorse, con la genialità. In questo caso la genialità fu impersonata dal Comandante Glicerio Azzoni; ci conosciamo da quando era tenente di vascello, adesso è ammiraglio, da poco in pensione. Fu lui a inventarsi tutto ed a progettare e curare la realizzazione sia del sistema di lancio, che del sistema di comando e controllo, a poppa del Garibaldi. Partendo da meno di zero e non fu una cosa semplice. A differenza del lancio dai sottomarini, dove l’accensione del motore del missile avviene a freddo e dopo l’espulsione dal pozzo, che viene fatta con l’aria compressa; sul Garibaldi l’accensione del motore doveva avvenire dentro ai pozzi e la Nave, al momento del lancio, doveva resistere ad elevate sollecitazioni sia termiche che meccaniche. Le prime prove di valutazione con il lancio di simulacri, le avevano fatte tra il ’62 ed il ‘63 anno del rientro in servizio della nave, nel golfo della Spezia prima e nel mar dei Caraibi dopo e con la supervisione degli americani ed erano andate a meraviglia. Praticamente recuperando a dovere una nave “ferrovecchio”, con lavori fatti in casa ed una spesa irrisoria rispetto ad un sistema imbarcato su un sottomarino atomico, avevamo realizzato un grado di deterrenza nucleare che, anche se più vulnerabile, era di tutto rispetto. Gli americani oltre a stupirsi parecchio ne furono molto interessati, anche perché non si fidavano ancora abbastanza dei loro sistemi di lancio subacquei; c’era ancora parecchio da sviluppare ed erano incalzati dai sovietici che stavano realizzando dei sistemi d’arma uguali ma a più lungo raggio. Considerarono addirittura di armare una piccola flotta di mercantili “ombra”, come i corsari tedeschi dell’ultima guerra, segretamente armati di Polaris, su modello “Garibaldi system”.

  • È una storia molto interessante, ma come finì con i missili sul Garibaldi e questo coso puzzolente, qui che ci sta a fare? e come c’è finito?

  • Finì a niente, come tante cose più o meno italiane; ma in questo caso fu meglio così. Nell’ottobre del ‘62 c’era stata la crisi di Cuba; il mondo fu sull’orlo della catastrofe nucleare ma alla fine fortunatamente prevalse il buonsenso e trovarono l’accordo. Krusciov ritirò i missili da Cuba e Kennedy pagò alcune contropartite. Non si conoscono tutte, anche perché nei patti c’era pure che lui agli occhi del mondo e, soprattutto, degli americani, doveva apparire “vincitore”, sa, per vie delle elezioni, problema che in Russia non avevano ed una contropartita fu certamente quella del ritiro dei Polaris e degli Jupiters da tutta l’Europa e dalla Turchia.

Così il Garibaldi rimase in servizio altri otto anni ma con i quattro pozzi vuoti; i nostromi li usavano come cale, mettendoci dentro di tutto, cordami, latte di pittura e quant’altro, sa, a bordo ogni spazio è prezioso.

Il fatto di Cuba, anche se fece provare al mondo l’incubo atomico, portò una grande stabilità politica, data dalla “mutua distruzione assicurata” e diede una grande credibilità al rango militare in ambedue i blocchi. Da ciò ne scaturì anche un enorme flusso di finanziamenti alla ricerca militare, sia capitalista che comunista ed un formidabile impulso allo sviluppo di tecnologie molto ben finalizzate. Gli americani colmarono rapidamente lo svantaggio sulla componente subacquea, ma affidarono il ruolo di deterrenza principale al SAC, lo “Strategic Air Command”; li avrà visti nei film, quelli con le chiavette, i codici di lancio e i comandanti pazzi; con i B52 sempre in volo con due bombe termonucleari in carlinga, che quella di Hiroshima al confronto sarebbe sembrata un petardo. I russi invece, oltre a sparare bombe sempre più grosse, a scopo tra il pubblicitario e l’intimidatorio, con l’ammiraglio Gorshkov, in pochi anni tirarono su una flotta poderosa per quantità e, soprattutto, per qualità; rinnovando completamente la Marina, che diventò quella di una grande superpotenza anche se al servizio di un paese ancora sottosviluppato.

Beh, se le è sembrato interessante quello che ho detto, la storia di questo grano forse lo è ancora di più, poi gliela racconto. Ma adesso ci converrà uscire da qui alla svelta e andare a pranzo, sennò la mensa chiude e non ce ne danno più. La campagnola sarà da mezz’ora che ci sta aspettando al cancello

  • Accidenti Parolini, lei è come gli sceneggiati a puntate della televisione. Ancora non mi ha finito di raccontare com’è che è finito a lavorare qui ed ora mi lascia a mezzo anche la storia del grano propellente. Mi toccherà invitarla a cena una di queste sere. La porto a Podenzana, dalla “Gavarina” a mangiare i panigacci; adesso hanno un vinello giovane, lo fanno a Riccò e va giù come una schioppettata, un paio di bicchieri e le faccio raccontare anche le cose che pensava di aver dimenticato.

  • Non si preoccupi, avremo tempo.

Sarà stata la suggestione ma mi sentivo un po’ strano veramente, le gambe pesanti e la testa leggera, tutto sommato era quasi una sensazione piacevole, a parte il fatto che dovevamo camminare alla svelta per affrettarci al cancello. Un saluto a Capece e via veloce in discesa, sulla campagnola guidata da Renato, autista e marinaio di leva, fino alla zona adiacente alla mensa. Non c’era quasi più nessuno ma la dottoressa con lungimirante preveggenza aveva telefonato per farci mettere da parte il pranzo, pastasciutta e spezzatino in umido con le patate, che piacevolmente consumammo e che mi riportarono la pressione (semmai mi fosse scesa) ai valori normali. Qualcosa rimediarono pure per Renato che si unì a noi.

Renato era un ventenne, friulano di Codroipo. Credo di non avere conosciuto mai un ragazzo bello e buono come lui. Volto da film dei telefoni bianchi degli anni quaranta, capelli nerissimi e lucidi ed occhi azzurri, generato dal mirabile incrocio di madre siciliana e padre friulano. Com’era scontato, in breve tempo era finito preda di una delle numerose cacciatrici di marito; fauna molto diffusa fra quelle contrade.

Ritengo, avendo avuto anche modo di sperimentarlo personalmente, che per una istintuale questione genetica, le femmine di quel territorio tendono a rifiutare i maschi nativi e sono spontaneamente attratte da quelli che vengono da fuori, essendo apportatori di geni differenti da quelli locali e quindi preziosi per il miglioramento della razza, impoverita da secoli di isolamento.

Così Renato era stato predato, finendo nel carniere di Luisa, operaia dell’Officina Controllo che, valutata l’occasione irripetibile, allo sventurato, da Cupido aveva fatto scagliare un arpione, anziché la solita freccia. Povero Renato, eravamo diventati amici e cercavo discretamente di convincerlo che aveva solo vent’anni e di filarsela, finché era in tempo.

Mi raccontava di quando Luisa lo aveva portato a casa sua, a Barbarasco, per farlo conoscere ai suoi dopo solo tre volte che erano usciti assieme. Al futuro suocero, piccolo imprenditore edile e padre di tre figlie femmine, manco gli pareva vero di prendere due piccioni con una fava: sistemava definitivamente la figlia maggiore che già aveva il lavoro statale ed, essendo Renato praticamente senza né arte né parte, ma con un fresco diploma da geometra; molto probabilmente avrebbe introitato un eccellente aiuto nell’azienda di famiglia. Se lo mangiava con gli occhi, quasi che l’innamorato fosse lui anziché la figlia, palpeggiandolo senza pudore per verificarne, ed apprezzandola molto, la giovanile vigoria, che gli sarebbe stata necessaria per caricarsi i tanti sacchi di cemento che il futuro gli avrebbe riservato.

Ma questa è un’altra storia…