[Una storia realmente accaduta in Afghanistan di cui presi atto e che ripropongo in modo mediato]
Ciao, mi chiamo Nabil, sono figlio di Jalad Khan ed appartengo alla tribù degli Alizaee. Sono nato e vissuto a Shewan, nella terra degli afghani.
Ti racconto questa storia perché tu possa capire, perché tu possa sfiorare almeno la superficie di questo mare di sabbia che mi circonda e che da sempre mi riempie il cuore.
Non lo so quanti anni ho; quando mi hanno catturato quelli dell'esercito regolare dicevano che avrei potuto avere nove o dieci anni, io sinceramente penso di averne di più. Credo di essere già uomo.
Sono venuti a prendermi di notte. Dormivo sul mio tappeto, con una coperta nuova che mio nonno, Aga Mohammad, aveva ricevuto dagli occidentali, all'ultima distribuzione di aiuti. Una coperta che scaldava poco, forse perché non era di lana, ma…meglio di nulla, sicuramente!.
Sono entrati all'improvviso, senza urlare come fanno di solito. Mi hanno preso e trascinato fuori, caricato in macchina e portato fino alla loro base. Sono stato perquisito attentamente e condotto verso una stanza grigia di cemento. Sono davvero strane queste case degli occidentali. Usano tanto di quel ferro e cemento che noi si potrebbe fare un villaggio nuovo! Non mi hanno trattato male all'inizio, mi hanno dato una coperta, un pezzo di pane e della zuppa con patate e carne. Ho deciso di mangiare. In fondo è l'alba ed inizio ad avere fame. A casa eravamo in dodici e tutto questo cibo non lo abbiamo mai visto.
Nella stanzona in cui mi hanno portato, delle luci bianche mi penetrano negli occhi. Dopo aver mangiato, mi sono addormentato profondamente, tanto da non rendermi più conto del tempo trascorso.
Mi hanno svegliato con un calcio sulla schiena. Mi volto e mi ritrovo davanti quattro uomini. Due sono Azara, non alti, con mani tozze e volti schiacciati, Dei due, solo uno è armato. L’altro, per come gli parlano, per il profondo tono di rispetto con il quale accettano le sue parole forti, deve essere il capo. Quanto agli altri due, ricordo il timbro della voce. Sono quelli che mi hanno trascinato fuori di casa.
Il sonno profondo in cui ero caduto mi rende faticoso capire esattamente cosa dicano. Hanno accenti strani, forti. Sono tutti del nord.
Un ceffone forte, tra la mascella e l'orecchio, mi fa trasalire. Non ricordo chi me lo abbia dato, ricordo solo la voce del capo che mi domanda, con tono sereno, perché io abbia deciso di essere talebano. Che domanda assurda! si vede che è un Azara, non capisce o forse non può capire. Io non ho deciso di essere talebano, così come non ho deciso di essere afghano o di nascere a Shiwan. Dio lo ha voluto, egli ha scritto tutto questo per me ed io faccio la sua volontà.
Non è la prima volta che vengo rapito, era già accaduto, dopo la grande battaglia contro gli americani, quando sulle nostre teste erano piovute bombe dall'alba al tramonto ed alla fine i morti si contavano a centinaia. Quanti lamenti davanti alle case distrutte, quanto sangue, polvere e mosche dappertutto!
Passati quattro giorni dalla battaglia, un mullah entrò in casa nostra, di notte. Mio padre si alzò e lo accolse con rispetto; non avrebbe potuto fare altrimenti, si conoscevano da anni, avevano forse la stessa età. Il mullah era della tribù Ashagzai e da tempo si diceva fosse rifugiato tra le montagne, quelle stesse montagne che i Mujaiddin usarono come fortezza contro i russi. Chiese di mangiare, lo fece senza rispetto. Aveva gli occhi rossi e camminava nervosamente nella stanza. Strisciai lentamente dal mio tappeto per vedere e sentire meglio, quando una mano mi afferrò e mi sentii sollevare. Quegli occhi rossi, penetranti mi scavarono nel cuore, un odore intenso si mischiava alla paura, acuita dal fatto che mio padre invece di difendermi, di strapparmi dalle mani di quel gigante inizio a lamentarsi, a piangere, a supplicare che ci lasciasse perdere poiché non avevamo nulla.
Il mullah iniziò a ridere sguaiatamente sputandomi in faccia chicchi di riso che ancora stava masticando. Strinse il mio viso tra il pollice e l'indice e poi rivolgendosi a mio padre sentenziò: "Hai un bel figlio, lo voglio per me!" Papà si lamentò, continuò a piangere. Il mullah lo spinse a terra con un calcio e mi trascinò via.
Mi massaggiavo la guancia indolenzita mentre l'Azara con il fucile mi chiedeva svogliato dove fosse nascosto Mullah Sahid. Non risposi ed un altro sganassone forte mi fece rotolare a terra. Fu il secondo di una lunga serie. Sputai un dente e poi persi i sensi.
Al mio secondo risveglio in quello stanzone grigio, dalle intense luci bianche, mi trovai di fronte un occidentale accompagnato da un afghano vestito come lui. Doveva essere uno della coalizione alleata, un cane infedele accompagnato da un traditore, così li chiamava Mullah Sahid. Sentii prima l'occidentale parlare una lingua con suoni tondi, mentre l'altro traduceva, rivolto a uno dell'esercito regolare che capivo esserci, ma che, dalla mia posizione, non riuscivo a vedere.
"È solo un bambino! - diceva insistentemente l'occidentale - Cosa me ne faccio? Se lo sa il mio comandante mi scortica vivo."
Il soldato afghano rispose: " È un talebano, fidati. Ci può dire molte cose."
Al ritmo di schiaffi e zuppa di carne, non ricordo più quanti giorni rimasi chiuso li dentro. So per certo che quattro denti mancavano all'appello. L'Azara, il capo dei soldati dell'esercito regolare qui a Shiwan, mi venne a fare visita più volte, ma io non risposi mai alle sue domande. Sembrava alquanto contrariato, ma io resistetti. Altri bruschi risvegli e pedate nella schiena.
Poi, un giorno, una voce familiare, sul fondo dello stanzone. Strizzo gli occhi per vedere meglio. È lui! Sì è proprio mio padre! Sono felice e nello stesso tempo spaventato. Lo avranno catturato? È venuto a prendermi? Ma come potrebbe? Mullah Sahid quella notte gli disse che ormai ero cosa sua ed avrei dovuto tenergli compagnia giorno e notte.
Dietro papà c'era l'Anziano Jahmagol, un uomo la cui voce arriva alle menti ed ai cuori di tutti, a Shewan.
Mi si avvicinarono. Erano tre: mio padre, Jahmagol Khan e l'Azara capo dei soldati. Poi, dietro a tutti l'altro Azara, quello col fucile.
Jahamgol Khan mi fissò intensamente e sussurrò al capo dei militari: "Sì, è l'amante di Mullah Sahid, era il bambino più bello di Shewan e lo volle per se. Vogliono tutto per se, il cibo, l'acqua, le coperte, tutto."
Dopo un attimo, con lo sguardo penetrante che lo contraddistingue, fissò l'Azara e sibilando disse: "So bene che faresti lo stesso anche tu, ecco perché non provo stima né per loro, né per voi."
Si allontanarono. L'Azara fece portare un tappeto, del the e della frutta secca. Iniziò una discussione accesa, ma apparentemente pacata. Le dita si congiungevano con i pollici all'atto della conta di numeri: morti, esplosioni e case distrutte. Ampi gesti descrivevano rifugi e rimedi, per evitare che tutti pagassero per una guerra che comunque doveva essere combattuta. Mio padre ricominciò a piangere.
Alla fine trovarono un accordo. Sarei stato liberato, dietro pagamento di un riscatto e con la promessa che se fossi stato trovato ancora assieme agli insorti, mi avrebbero ucciso e mio padre sarebbe stato fatto prigioniero e processato quale talebano.
L'Anziano Jahmagol annuì. Sembrava un accordo giusto.
Uscii da quella stanza lentamente, quasi in punta di piedi. Era notte, dal nord tirava un vento teso, che faceva gli spari sempre più vicini.
Mullah Sahid si preparò per fuggire. Io rimasi sdraiato sul suo tappeto. Poco dopo sentii la coltre sul mio corpo nudo alzarsi. Ebbi il tempo di osservare il lampo negli occhi dell'azara con il fucile. Addio!