Gli Houthi ci tagliano le rotte vitali: che ci pensi lo Zio Sam!

(di Antonio Li Gobbi)
15/01/24

Da un po’ di tempo gli italiani sentono parlare di Houthi (nome probabilmente poco noto precedentemente a chi non si interessasse di geopolitica) e delle loro minacce al traffico marittimo internazionale.

Chiariamoci le idee, non si tratta di gruppi criminali più o meno organizzati, che con barchini attaccano le petroliere, come la pirateria al largo delle coste somale contro cui nel 2008 prima la NATO e poi la UE lanciarono operazioni di contrasto (quella UE, l’operazione Atalanta, è tutt’ora in corso e non è chiaro se serva veramente ancora, se ci si sia dimenticati di cancellarla o se comunque l’UE abbia bisogno di mantenere in vita almeno una missione militare che sia operativa e non solo di addestramento).

Gli attacchi Houthi alle navi in transito vengono condotti con mezzi sofisticati, utilizzando anche droni ed elicotteri.

Gli Houthi controllano di fatto da anni una parte non indifferente dello Yemen, compresa la capitale Sana’a, hanno proprie autorità governative e proprie forze armate, finanziate, armate e anche addestrate in maniera esplicita da Teheran, che da vent’anni (ovvero dall’epoca della infelice operazione destabilizzatrice USA in Iraq) li utilizza come strumento nella sua contrapposizione con Riad. Contrapposizione confessionale (in quanto gli Houthi sono sciiti zaiditi e i sauditi sono i massimi rappresentanti del wahabismo sunnita) certo. Ma qui la religione serve anche (o forse soprattutto) a coprire ambizioni geopolitiche di leadership regionale.

Sappiamo tutti quale sia l’importanza commerciale delle rotte marittime che transitano attraverso il Mar Rosso e Suez. La minaccia di una inagibilità di tale rotta si traduce in costi che si scaricano sugli utenti finali del traffico marittimo che la percorre (utenti finali che spesso siamo noi europei). Costi dovuti ad allungamento a dismisura dei tempi di navigazione per il naviglio che decidesse per la rotta alternativa del Capo di Buona Speranza, o costi dovuti al lievitare dei prezzi assicurativi per il naviglio che decidesse di correre il rischio sulla rotta più breve.

Si tenga conto che dal Mar Rosso, prima della crisi, transitava tutto l’interscambio marittimo di merci (incluse critiche componentistiche elettroniche) dell’Europa con Cina, Taiwan, Sud Corea, Giappone ed il subcontinente indiano, circa il 30% dei volumi mondiali di spedizione di container, circa 220 mila tonnellate di granaglie al giorno e, soprattutto, e circa 7 milioni di barili di greggio al giorno (greggio il cui prezzo è già in evidente ascesa). Un rifornimento indispensabile per le energivore società europee (specie dopo aver tagliato i nostri rifornimenti dalla Federazione Russa in risposta alla crisi ucraina).

Per la sola Italia si calcola che il valore dell’import-export transitante annualmente attraverso il Mar Rosso superi i 150 miliardi di euro e che rappresenti circa i quattro decimi del nostro commercio marittimo, ovvero oltre 80 miliardi di euro l’anno.

Per l’Italia il problema è anche più grave rispetto ad altri paesi europei. Non solo buona parte del nostro interscambio commerciale utilizzava quella rotta, ma le infrastrutture portuali italiane, soprattutto nel Nord Italia, servono da punto di arrivo e partenza di merci destinate o provenienti dal Nord Europa. Merci transitanti da Suez e dal Mar Rosso. Peraltro, se il naviglio dovesse dirottare sulla rotta del Capo di Buona Speranza sarebbe più agevole ed economico prevedere l’utilizzazione delle ben superiori capacità portuali nordeuropee (Amburgo e Rotterdam ad esempio) che di quelle italiane, con buona pace dei porti di Genova e Trieste e dei relativi indotti.

Non può, però, essere solo questione di “vil denaro” (per quanto importante) ma qui si tratta anche di una questione di principio: la salvaguardia della libera navigazione nelle acque internazionali.

Appare, pertanto, imperativo per una nazione che vive di traffici marittimi (come l’Italia) fare qualcosa per contrastare l’attività terroristica degli Houthi nel Mar Rosso. Al momento USA e Regno Unito, con il supporto di alcune altre nazioni si stanno muovendo in tal senso. L’Italia?

Al riguardo, occorre anche essere realistici: in un collo di bottiglia (“choke point” lo chiamano gli anglo sassoni) come Bab el Mandeb (40 km di larghezza e 130 di lunghezza) non si può contrastare efficacemente il terrorismo marittimo senza colpirne le basi a terra e limitandosi a costose e non sempre efficaci operazioni di scorta armata dei convogli.

Non regge neanche il solito piagnisteo di non intervenire perché altrimenti si allarga il conflitto. Il conflitto si è già allargato al Mar Rosso, sin da ottobre scorso (si pensi agli attacchi Houthi contro Eilat) e ha già preso in ostaggio le rotte commerciali indispensabili all’Europa e all’Italia. Sono stati gli Houthi e i loro sponsor iraniani ad aprire questo nuovo fronte di scontro, non gli USA e la Gran Bretagna che, dopo vari avvertimenti, hanno condotto quegli inevitabili attacchi a terra.

Non ritengo ci si possa nascondere e, per quanto possa apparire comodo, lasciare solo ai “cowboy yankee” il lavoro sporco: noi siamo già elencati tra i nemici che gli Houthi combattono (se ne fregano se firmiamo o meno dichiarazioni di supporto all’operazione USA e se ne fregano anche del nostro buonismo con l’invio di Nave Vulcano a curare alcune decine di feriti gazawi).

Siamo una democrazia occidentale, alleata degli Usa, certamente non vicina né a Russia né a Iran, e già per questo siamo tra i potenziali obiettivi, qualsiasi cosa facciamo o, nel caso specifico, non facciamo.

Il 10 gennaio Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato una risoluzione di condanna delle attività degli Houthi (sia pure con astensione di Cina, Russia, Algeria e Mozambico) e ciò fornisce una certa sia pur vaga cornice di legittimità internazionale all’intervento che USA e UK stanno conducendo a partire dalla notte tra l’11 e il 12 gennaio.

Pechino non ha posto veti alla risoluzione e la sua astensione non poteva non essere interessata. La Cina, infatti, verrebbe anch’essa danneggiata ove le compagnie di navigazione europee dovessero abbandonare la rotta di Suez, ma nel suo ruolo di “protettore” dell’Iran e di leader del “Sud Globale” contro “l’imperialismo a stelle e strisce” non poteva approvare la risoluzione e l’astensione è stata probabilmente un compromesso tra interesse economico e relazioni con l’Iran. Interessante l’aiuto ufficialmente fornito agli anglo-americani da Canada, Australia e, tra gli altri, da Paesi Bassi e Bahrein. Importante, a mio avviso, la presa di posizione di una antica potenza marittima, fermamente e convintamente europeista, come i Paesi Bassi, che dai traffici marittimi che transitano attraverso i suoi porti trae ancora grandi benefici.

Presumibile che gli USA possano contare sul supporto sia pure non esplicito di Riad. Supporto che però non poteva essere reso noto per evidenti motivi (sia per essere accusata di prendere una posizione pro-Israele sia per non compromettere ulteriormente i suoi rapporti con gli Houthi, con cui ha concluso, solo nel 2022, una traballante tregua e che minacciano il confine meridionale dell’Arabia Saudita, e soprattutto con i loro sponsor di Teheran).

E l’Italia? Una nota diffusa da Palazzo Chigi recita: "L'Italia condanna con fermezza i ripetuti attacchi degli Houthi a danno di navi mercantili nel Mar Rosso e conferma il proprio deciso sostegno al diritto di libera e sicura navigazione, in linea con le norme Internazionali. A fronte del comportamento inaccettabile degli Houthi, l'Italia sostiene le operazioni dei Paesi alleati, che hanno il diritto di difendere le proprie imbarcazioni, nell'interesse dei flussi commerciali globali e dell'assistenza umanitaria".

Ovvero, se si volesse essere sarcastici, si potrebbe dire che siamo coscienti che il problema c’è, al momento noi non siamo disponibili ad intervenire in prima persona, ma se qualcun altro lo fa noi, dagli spalti, gli forniamo i nostri “like”.

Facili ironie a parte, occorre rendersi conto che il discorso non è assolutamente semplice, soprattutto per un Paese che dal 1945 in poi ha sempre avuto una certa difficoltà ad elaborare sia una propria politica di sicurezza e difesa sia una politica estera autonoma. “Ce lo chiede l’ONU, ce lo chiede l’UE, ce lo chiede la NATO e noi siamo fedeli onusiani, europeisti e atlantisti” è stato un mantra sul quale bene o male ci siamo adagiati, a volte acriticamente. D’altronde, per comprensibili reminiscenze storiche, ci si è spesso vergognati di difendere gli “interessi nazionali”, in quanto ciò poteva essere percepito come componente di un nazionalismo deteriore.

Ma “fare qualcosa”, come e in quale contesto? Qui il problema appare anche più arduo da affrontare.

Accettare di partecipare ad una missione navale a guida USA (“Prosperity Guardian”), di fatto l’ennesima “coalizione di volenterosi”, ovvero una coalizione in cui Washington fissa obiettivi e modalità e gli altri, di fatto, si adeguano? In effetti, non sarebbe stato opportuno in quanto questa forma di cooperazione non ci avrebbe posto in condizioni di avere un reale impatto sulle decisioni operative adottate e ci si poteva trovare coinvolti, nostro malgrado, in azioni che non si condividevano.

Stante l’impatto di questa forma di “terrorismo marittimo” su buona parte dei paesi europei, sarebbe stato auspicabile da subito l’avvio di una operazione navale NATO. Infatti, l’Alleanza ha già disponibili le capacità necessarie sia per la gestione dell’operazion (l’Allied maritime command di Northwood in UK) sia per la condotta di una tale operazione navale (i due standing maritime groups). Soprattutto, però, la NATO ha una rodata capacità di pianificazione e condotta di operazioni militari anche di questo tipo (come dimostrato anche in relazione al contrasto alla pirateria nell’Oceano Indiano con il tempestivo intervento NATO nel 2008, quando l’UE faticava a mettere su l’operazione Atalanta).

Il grande vantaggio per l’Italia di una tale opzione sarebbe stato connesso con il fatto che in ambito NATO tutti gli alleati hanno voce in capitolo nel definire obiettivi dell’operazione e modalità di intervento (inclusi i problemi spinosi, in questo caso, delle regole di ingaggio e della gestione di eventuali “terroristi” prigionieri). Inoltre, una tale decisione avrebbe costretto l’Alleanza a ricominciare a occuparsi del “Fronte Sud” e del Mediterraneo Allargato (di cui il Mar Rosso è parte intrinseca). Interesse che ha incominciato ad essere un po’ evanescente dopo il 2014 e che direi essere oggi, in relazione alla crisi ucraina, totalmente assente.

Ciò non sembra sia stato né voluto né possibile. Non voluto, probabilmente, dagli stessi USA, cui l’avvio di una coalizione di volenterosi consente totale autonomia decisionale, maggior libertà d’azione ed elevata celerità di intervento. In fondo li si può capire: perché impazzire per mettere d’accordo 31 paesi litigiosi (la Svezia non è ancora ufficialmente membro “pieno”), quando poi gli assetti deve metterli quasi tutti lo Zio Sam?

Peraltro, ritengo che l’opzione di un intervento NATO non sarebbe neanche stata realisticamente possibile se si considera che sicuramente Ankara avrebbe posto il veto. Inoltre, l’intero blocco dei paesi est europei (in particolare le tre repubbliche Baltiche, Polonia e Romania) è oggi abbastanza restio a vedere impegni NATO che in qualche modo possano ulteriormente attenuare l’attenzione Alleata dal conflitto russo-ucraino.

E l’Unione Europea? Non sarebbe stata una buona occasione per dimostrare di esistere anche a livello di sicurezza? Si poteva lanciare una missione europea parallela e coordinata con “Prosperity Guardian” oppure ampliare adeguatamente il mandato dell’ormai stantia “Atalanta”.

Sembra che a Bruxelles se ne discuta. Dovrebbe esservi una prima riunione al riguardo il 16 gennaio con l’obiettivo di presentare una proposta alla riunione dei Ministri degli Esteri e poi forse sottoporla ai capi di Stato e di Governo, ma per il momento si rimane a livello di discussione e forse rimarrà tale sino a quando, forse, non varrà più la pena neanche di discuterne.

È vero, come viene evidenziato, che le fregate classe Fremm Virginio Fasan e Federico Martinengo sono in quell’area, ma sono state inviate di fatto in parallelo agli assetti USA. Però non sono parte di “Prosperity Guardian” e ufficialmente sarebbero parte di “Atalanta”, che ha un'altra missione in un’area diversa, e se assegnate ad “Atalanta” dovrebbero in teoria operare sotto controllo operativo del Comandate UE (il force commander è attualmente un contrammiraglio portoghese, mentre l’operational headquarter di Atalanta è retto, per conto della UE, dalla Spagna). Per cui, certo le nostre navi fanno presenza, ma per fare deterrenza concreta dovrebbero avere regole d’ingaggio adeguate alla minaccia (che in questo caso parrebbe superiore a quella dei pirati operanti intorno al Corno d’Africa).

Dato che non appare probabile, almeno per il momento, che le autorità nazionali dispongano un “reverse TOA1”, ovvero di riassumere in pieno il comando e controllo delle due navi (per assegnare dei compiti nazionali o per assegnarle a “Prosperity Guardian”) possiamo ritenere che di fatto le due fregate continuino ad assolvere i compiti assegnati ad Atalanta e non il contrasto degli attacchi Houthi.

La situazione non è semplice. L’opzione (teoricamente ideale) di intervenire nel contesto di una solida operazione NATO purtroppo non appare possibile. L’opzione politicamente allettante di dimostrare che l’UE c’è e fa la sua parte, per il momento non sembra concretizzarsi e comunque anche in ambito UE potrebbero esserci delle luci rosse2 che se non impediranno l’avvio di una operazione navale ne possono, comunque, compromettere sensibilmente l’efficacia. In ogni caso, l’UE non dispone di strutture di pianificazione, comando e controllo rodate comparabili a quelle dell’Alleanza Atlantica e, soprattutto, della stessa mentalità operativa.

L’adesione a “Prosperity Guardian” sicuramente ci esporrebbe ad essere trascinati da decisioni assunte oltreoceano, ma consentirebbe all’Italia di essere da subito presente con un ruolo attivo a salvaguardare un nostro interesse vitale. Nulla vieterebbe, quando e se partisse una operazione UE, di trasferire i nostri assetti navali sotto l’UE.

È ovvio che, qualunque sia la struttura di comando di un nostro eventuale intervento anti-Houthi nel Mar Rosso, si debba considerare anche per il nostro contingente in UNIFIL su cui potrebbe scatenarsi la reazione di Hezbollah. Peraltro, lo scambio di colpi di artiglieria e di razzi che da ottobre procede indisturbato tra Israele ed Hezbollah, senza che UNIFIL faccia né possa fare alcunché per contrastarlo, ci dovrebbe far ragionare anche in merito alla reale utilità di proseguire tale missione, cui l’Italia partecipa dal 1978 e di cui è divenuta uno dei maggiori contributori di forze sin dal 2006.

Ripeto, la situazione è complessa e non vi sono soluzioni semplici o scevre di rischi. Peraltro, se l’Italia vuole davvero avere un ruolo nel Mediterraneo, in termini politici, economici e anche militari, su un argomento come la libertà di navigazione nel Mar Rosso (che del Mediterraneo è una appendice essenziale) non può limitarsi ad aspettare decisioni assunte a Bruxelles (che sia in ambito UE o NATO). Inoltre, l’Italia, come scrivevo, viene penalizzata dall’impraticabilità della rotta di Suez ben più di quanto non lo sono i partner europei che dispongono di porti sull’Atlantico o sul Mar del Nord.

Un’altra considerazione è d’obbligo in merito all’architettura di sicurezza su cui ci basiamo.

Vediamo che la NATO presenta vulnerabilità (dovute al suo sistema decisionale all’unanimità) che possono facilmente bloccarne sine die le decisioni. I processi decisionali NATO e la presenza in seno all’Alleanza della Turchia, che ha interessi nel Mediterraneo Allargato spesso contrapposti ai nostri, possono far sì che l’Italia non possa sempre fare affidamento su tale Alleanza per la salvaguardia dei propri interessi vitali.

Al contempo, per il momento sembra evidente che la UE non disponga né della capacità militare né della volontà politica per sostituirsi credibilmente alla NATO, almeno sul Fronte Sud.

Tali considerazioni dovrebbero indurci a considerare l’esigenza di dotarci di una capacità militare che possa consentirci le difesa dei nostri interessi vitali anche in autonomia ove l’esigenza del ricorso allo strumento militare per la loro salvaguardia non venga condivisa in questi due consessi multinazionali.

Concetto questo, peraltro, già individuato in tempi non sospetti dagli “Indirizzi di Politica Militare” del Ministero della Difesa del 19803 (ministro della difesa il socialista Lelio Lagorio) e che oggi, in una situazione molto più fluida e con alleanze molto meno coese di quanto non fossero 44 anni fa, meriterebbe di essere ripreso.

In assenza di possibilità di operare in contesti paritari (UE o NATO) ci si può trovare a dover scegliere se stare a guardare o accodarsi al potente alleato americano per salvaguardare quelli che sono anche i nostri interessi. In questo caso, però, in posizione che non può essere definita esattamente paritaria.

Nel caso specifico, stante la rilevanza per il nostro paese della salvaguardia della libertà di navigazione, forse poteva essere pagante intervenire a fianco di USA e UK, assumendosene le conseguenti responsabilità e rischi.

Qualunque decisione si assuma, la tendenza all’equilibrismo può essere pericolosa. Credersi provetti equilibristi quando in realtà non lo si è o non si è in posizione di esserlo potrebbe condurre a cadute (di immagine) rovinose.

1 TOA: Transfer of Authority: atto formale con cui una nazione concede di norma a un comando alleato per tempi limitati e per l’assolvimento di missioni specifiche ben definite autorità di comando e controllo su propri assetti. Con il “reverse TOA” viene riassunto dalla nazione il comando pieno dell’unità.

2 Si consideri che Francia e Spagna non hanno neanche sottoscritto il Joint Statement del 3 gennaio di condanna degli Houthi per i loro “attacchi illegali” nel Mar Rosso. Dichiarazione congiunta firmata da 13 paesi (tra cui solo 5 UE: Italia, Germania, Belgio, Paesi Bassi e Danimarca)

3 La direttiva considerava che potessero esservi “fuori dalla zona di competenza della NATO” emergenze che interessassero singoli paesi dell’Alleanza per le quali però, “non operano i meccanismi dell’intesa militare (NATO)”. Proseguiva dicendo che “il Ministero della Difesa è intenzionato a dare il massimo contributo perché il nostro paese acquisisca e sviluppi un ruolo catalizzante degli interessi regionali per contribuire con altri paesi mediterranei….alla realizzazione di un più stabile equilibrio nell’area al fine di una garantita sicurezza comune

Foto: U.S. Navy