Influencer in guerra

(di Renato Scarfi)
23/01/24

Nato nel bel mezzo della Guerra Fredda, James Bond è stato spesso considerato il tipico agente segreto, la spia che riusciva a ottenere le informazioni necessarie per sconfiggere ogni minaccia contro il proprio Paese. Tuttavia, ben 14 romanzi originali, 9 racconti, 40 romanzi di continuazione, 10 romanzi di Young Bond e 25 film (fino a oggi), hanno trasmesso solo parzialmente alcuni aspetti della lotta tra le due superpotenze durante la Guerra Fredda. Come ci insegnano le cronache nazionali degli ultimi anni e le condanne degli ultimi giorni, infatti, non è mai cessato il tentativo di carpire le informazioni dell’avversario, ma anche di manipolarle, sia per prepararsi a una eventuale risposta militare sia per cercare di influire sul processo decisionale dei potenziali avversari (leggi articolo “Intelligence e processo decisionale”)

Il secondo aspetto, molto più complesso di quanto si creda, va assumendo valenza sempre maggiore, specie in tempi di informazione globalizzata (social media, internet, ecc...).

In tale ambito, le emergenze che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, dal Covid alle guerre in Ucraina, in Medio Oriente o in Mar Rosso, hanno determinato un aumento delle fake news tant’è che, come sottolinea un rapporto del Censis-Ital Communications del 2022, nel periodo preso in esame l’83,4% degli italiani si è imbattuto almeno una volta in una notizia falsa sulla pandemia e il 66,1% sulla guerra in Ucraina. Nulla è casuale, risponde a una precisa strategia.

Proseguiamo, quindi, il nostro discorso sulla guerra dell’informazione, dopo aver in precedenza analizzato l’uso “bellico” della propaganda (leggi articolo “Guerra e propaganda”) e l’uso della disinformazione per giustificare le aggressioni, dividere la comunità internazionale o per mobilitare l’opinione pubblica interna quando si è impegnati in un confronto bellico.

La guerra ormai non è più solo ibrida, ma cognitiva. A livello tattico, la guerra sul terreno, infatti, riguarda bombe, cannoni, mortai, navi, aerei e capacità di erodere spazi al nemico. Ma, come ben sappiamo, la guerra non è solo una questione di tattica, è anche una questione di percezione. La percezione che l’opinione pubblica ha su chi è la vittima e chi è l'aggressore. In tale ambito la comunicazione rappresenta un asse fondamentale della guerra cognitiva e le bugie, le falsità e la disinformazione giocano un ruolo chiave nel conflitto moderno.

La guerra dell’informazione

La guerra dell'informazione entra in gioco prima che i cannoni si facciano sentire, con il tentativo di plasmare le percezioni, impiegando ogni mezzo necessario per cercare di preparare l’opinione pubblica (propria e altrui), generando confusione sui reali ruoli e interessi in gioco. Dopo l’inizio delle ostilità la guerra dell’informazione prosegue la sua opera, con il tentativo di erodere l’altrui sostegno e attirare verso la propria causa l'opinione pubblica internazionale.

Una guerra che si sviluppa, quindi, su più fronti. Lo abbiamo visto in passato e lo vediamo ogni giorno sia nel conflitto in Medio Oriente sia in Ucraina, dove gli aggressori sono i più attivi disseminatori di fake news, nel tentativo di promuovere la loro causa e di distogliere l’attenzione dalle loro reali responsabilità. In tale ambito, vengono immesse nel circuito informativo anche immagini di precedenti confitti spacciate come attuali o addirittura materiale proveniente da videogiochi molto realistici, perché i lettori sono abitualmente meno critici di fronte a immagini o video, mettendoli raramente in discussione. Moltissimo materiale che alimenta campagne di disinformazione che non hanno precedenti, vista la velocità di diffusione.

La prevalenza di informazioni false e, in generale, la mancanza di consenso sui fatti condivisi è caratteristica di ciò che la RAND chiama “Decadimento della Verità”. A questo meccanismo partecipano, intenzionalmente o meno, i vari supporters che, essendo altamente faziosi, apprezzeranno e condivideranno contenuti online di conseguenza. Anche se talvolta, in seguito a proteste o precisazioni, il contenuto fake viene corretto o rimosso, il problema rimane. Quanti sono stati influenzati dopo aver letto la notizia falsa? Quanti hanno poi letto l’eventuale smentita?

E qui si inserisce un altro discorso, la guerra psicologica. Si tratta di una forma di guerra antica quanto l’uomo ed è intimamente connessa alla comunicazione. In tempo di pace quella psicologica è una guerra che viene combattuta con attività che possono raccogliersi sotto il nome di “propaganda sovversiva”, subdola minaccia alla sicurezza interna delle nazioni, intimamente connessa alla diffusione di notizie false o, comunque, manipolate ad arte. Una forma di “informazione” che l’avversario rivolge soprattutto verso coloro che sono particolarmente influenzabili. E qui entra in gioco l’influencer, che alimenta l’avversione per certe scelte e favorisce il consenso verso altre preferenze, più corrispondenti ai propri obiettivi geopolitici.

Con l’informazione globalizzata, in grado di essere consegnata al destinatario quasi in tempo reale e su più piattaforme, anche il panorama dei possibili “trasmettitori” di propaganda si è ampliato. I social network si sono, infatti, trasformati in atomizzatori delle notizie, capaci di permettere la diffusione di informazioni in pochissimo tempo, facendole rapidamente diventare virali.

Analizziamo, quindi, il ruolo degli influencer nella disseminazione di informazioni “orientate”, cioè notizie false e manipolate che hanno lo scopo di fornire una visione della realtà adattata alle esigenze della narrazione ufficiale.

Influencer e storytelling

Gli influencer sono figure relativamente nuove, diventate di rilievo nell’era digitale. Si tratta, in estrema sintesi, di persone, anche non professioniste del settore, che creano dei contenuti al fine principale di intrattenere i propri followers.

Le categorie di influencer sono tante e variano tra innumerevoli settori, dalla moda alla tecnologia, alla letteratura, alla politica. Al fianco degli influencer più “classici” e che hanno prevalentemente uno scopo “commerciale” (la promozione e vendita di prodotti) vi è, tuttavia, una vasta schiera di soggetti i cui contenuti mirano a radicalizzare o a veicolare messaggi di disinformazione specifici. Tali sono gli influencer che trattano questioni connesse ai conflitti, come nel caso della guerra in Ucraina. Essi diffondono ad arte informazioni false, o manipolate in modo da sembrare vere, allo scopo di alimentare la narrazione ufficiale di ognuna delle parti. Quello che è conosciuto come storytelling, uno stile di narrazione che da anni imperversa nella comunicazione, specialmente da quando si è diffuso enormemente l’uso dei social media.

Piacevole e coinvolgente, tale narrazione tende a illustrare una realtà virtuale che si discosta dalla realtà fattuale, fornendo informazioni brevi, approssimative, opportunamente imprecise, spesso con letture volutamente distorte e ideologiche della storia, atte a supportare versioni di comodo, che vogliono orientare comportamenti e scelte. Attraverso tali versioni distorte dei fatti viene aperta una breccia nell’emotività di chi ascolta o legge e ciò lo rende ricettivo al messaggio “nascosto”, che vuole manipolare la percezione dell’individuo.

Le favolette dello storytelling, tuttavia, ancorché confezionate in modo da essere convincenti, non saranno mai sufficienti a descrivere i fatti. Raccontare una storia (secondo i fatti) è, infatti, diverso dal raccontare storie (secondo ideologia). Un piccolo sito, per esempio, che si riprometteva di proporsi come fonte autorevole per la diffusione delle notizie principali selezionate della stampa internazionale online, ha rilanciato una falsa notizia confezionata per mettere in cattiva luce l’aggredito e per attirare simpatie verso l’aggressore. La cosa ancor più grave è che il gestore del sito, una volta messo di fronte all’evidenza, non ha capito le implicazioni politiche di ciò che aveva rilanciato. Ingenuità o consapevolezza?

Ciò dimostra che non serve essere un influencer da milioni di followers per ricoprire un ruolo nello storytelling. Gli avversari, tra questi sia Stati che organizzazioni criminali e gruppi estremisti, sfruttano spesso la rete di micro e nano influencer per orientare il dibattito e il processo decisionale, attraverso la veicolazione di un messaggio solo in apparenza autentico.

Chi sono i micro o nano influencer? Sono semplicemente personaggi che, in virtù del numero ridotto di follower (si parla dell’ordine di poche centinaia, fino a un massimo di 10mila), riescono a instaurare col loro pubblico un rapporto più stretto, coinvolgente e “familiare”. In virtù del rapporto di “fiducia” che ingenerano nei propri seguaci, essi rappresentano un mezzo tramite cui veicolare messaggi politicamente schierati o di disinformazione.

In un rapporto redatto al termine di una ricerca sui Social Media Influencers and the 2020 U.S. Election: Paying “Regular People” for Digital Campaign Communication, condotta da Samuel Wooley1, dell’Università del Texas, si afferma che a differenza degli account delle celebrità, i micro e nano inflluencer sono individui normali, le cui occupazioni principali non sono fare gli influencer, ma piuttosto essere membri attivi delle loro comunità locali, che hanno connessioni con i loro follower offline. Tale poteva essere, per esempio, quell’imprenditore che nel settembre 2022 sosteneva con vigore di aver visto numerosi carri armati russi modernissimi concentrarsi ai confini con l’Ucraina, pronti a schiacciare di lì a poco ogni resistenza di Kiev. Lo stesso personaggio riteneva anche la Russia capace di costruire, nonostante le pesanti sanzioni internazionali, migliaia di moderni carri armati al mese (sic!). Tutto ciò senza avere (o fornire) dati attendibili in mano e senza conoscere ciò di cui stava parlando.

La storia ci dice che quelle allucinazioni erano probabilmente frutto di un tentativo di influenzare l’opinione pubblica a favore della guerra di aggressione condotta dalla Russia. Nel migliore dei casi, quelle fandonie erano la punta dell’iceberg di una incommensurabile ignoranza e incapacità di analisi dei dati geopolitici e militari. Insomma, un cialtrone che voleva fare l’inflluencer e che, nonostante tutto, ha fatto “abboccare” diversi sprovveduti.

Facendo leva sulla presunta “autenticità” di questi individui la disinformazione di stampo politico mette, quindi, in atto operazioni di orientamento delle masse, cercando di influenzare i processi decisionali del pubblico target e di manipolarne il dibattito. In sostanza, viene messo in moto un flusso informativo schierato, gestito da soggetti ritenuti “affidabili” dagli utenti, ma estremamente infidi, che riescono a evadere i sistemi di controllo dei contenuti delle stesse piattaforme usate per veicolare le informazioni. Tali notizie false o manipolate vengono poi condivise dagli utenti più sprovveduti (o sodali), aumentando esponenzialmente il livello di confusione e disinformazione.

In tale ambito, anche un post apparentemente innocuo può nascondere l’obiettivo reale di trasferire la sensazione di fiducia dei follower nei confronti dell’influencer nel sentimento di devozione verso una causa, qualunque essa sia.

La ricerca del personaggio giusto

Parafrasando un celebre detto, si può dire che l’influencer è in mezzo a noi, da sempre. Ciò che cambia sono i mezzi con i quali opera, ma l’avvelenatore dei pozzi si è sempre annidato ben all’interno della società obiettivo della disinformazione. Può assumere le sembianze di un attore, di un giornalista, di un imprenditore, ma può anche essere un perfetto sconosciuto che inizialmente si evidenzia dicendo o scrivendo cose che a molti piace sentirsi dire o leggere.

Spesso questi individui utilizzano la propria capacità di farsi ascoltare dall’opinione pubblica, diffondendo informazioni errate che dipingono una realtà virtuale, per definizione diversa dalla realtà fattuale. Per tali motivi si tratta di soggetti molto apprezzati dai servizi dei paesi che vogliono accreditare una narrazione di comodo.

Questi individui possono accettare di diffondere fake news per quattro motivi principali:

  • per ideologia. L’influencer ideologico ritiene che la causa dell’aggressore sia più giusta di quella dell’aggredito, ma anche per altre ragioni che egli ritiene buone e morali;

  • per ignoranza. L’influencer inconsapevole è colui che rilancia una certa narrazione senza accorgersene o senza comprendere le implicazioni profonde delle informazioni manipolate che sta diffondendo. È un personaggio che diffonde fake news basandosi solo sulla fiducia riposta nella propria rete di contatti, senza effettuare ulteriori verifiche. In sostanza, insieme all’influencer ideologico fa parte di una schiera di “utili idioti”, una definizione che sembra sia stata coniata da Lenin, per descrivere quegli occidentali che sostenevano l'Unione Sovietica e le sue politiche in Occidente (sic!); (leggi articolo “Disinformatia e utili idioti”)

  • per tornaconto personale. L’influencer mercenario lavora solo per avere un ritorno economico. Molti influencer politici o “disinformatori”, infatti, non rivelano di essere stati pagati per la creazione di un determinato contenuto, e il pagamento avviene spesso in maniera e con mezzi occulti;

  • perchè costretto. L’influencer forzato è un duttile strumento di propaganda perché compromesso moralmente, economicamente o giuridicamente e, quindi, ricattabile.

Di tutti questi personaggi, quello più difficile da smascherare è l’influencer ideologico, specialmente se la sua conversione alla causa dell’aggressore è avvenuta dopo che egli ha raggiunto un significativo numero di follower. Una conversione difficile da smascherare anche perché normalmente non c’è alcuna retribuzione del servizio reso, cosa che evita il pericolo di attirare l’attenzione con spese che vanno oltre le proprie possibilità ufficiali. L’influencer ideologico lavora per cambiare il sistema sociale nel quale vive, perché è convinto che sia sbagliato e che un altro sistema, magari fondato sulla presidenza a vita o su una interpretazione radicale della religione, possano permettere di vivere meglio. Egli è convinto che il sistema nel quale si trova complotti per assoggettare gli altri popoli e che, aiutando altre ideologie ad affermarsi, possa sconfiggere tale tentativo.

I professionisti della destabilizzazione sono sempre alla ricerca di influencer che facciano il loro gioco. Essi provano e riprovano senza sosta, spesso facendo apparire il rapporto personale come casuale o legato a particolari passioni o interessi. Il soggetto “bersaglio” di questi tentativi è spesso convinto che l’interesse verso la propria persona sia generato dalle sue capacità intellettuali, manageriali o gestionali, dalla sua personalità affascinante. Niente di più falso.

Questi primi contatti vengono poi approfonditi con le scuse più varie, come piccoli servizi a pagamento o inviti a manifestazioni dove viene verificata la permeabilità ideologica del soggetto in esame. Se egli risulta reclutabile, piano piano attorno gli viene costruita una rete allo scopo di intrappolarlo e di farlo lavorare per i propri scopi.

Gli influencer sono, infine, accuratamente selezionati in base al target di riferimento (giovane o adulto) e allo stile con il quale si rapportano ai propri follower.

Conclusioni

L’attività di manipolatore di vite e di scelte, inventata dal nulla, è ormai divenuta simbolo di prestigio e dichiarazione di successo, nonostante essi rappresentino chiaramente una minaccia per la trasparenza, la responsabilizzazione e la qualità dell’informazione. È terribile che milioni di persone seguano i messaggi lanciati da questi nuovi, terrificanti maestri, che spingono i loro follower verso “scelte” guidate dai propri interessi politici. Con quei clik i loro poveri discepoli si appagano, mentre i narratori si ingrassano, giocando sull’altrui esistenza. Da parte dei follower dietro tale comportamento c’è spesso una crassa ignoranza, una sostanziale mancanza di qualunque spirito critico, una agghiacciante aridità mentale.

Come afferma Aldo Grasso “…Il flusso della rete ha ingigantito il fenomeno degli influencer, tanto da creare una sorta di credulità collettiva. Gente che si lascia influenzare da un video, dal sollievo di non dover scegliere. Non c’è più alcuna mediazione cognitiva. Nonostante la cultura illuministica, la scuola dell’obbligo, i mezzi di informazione, i social hanno virato verso un impoverimento linguistico (fragilità sintattica e basso profilo lessicale) che impedisce ormai di affrontare la complessità…”2, in particolare quella geopolitica (nda).

Cosa si può fare? Prima di tutto è bene essere consapevoli che quando si accede a delle fonti di informazione si può essere ingannati. Le fake news sono, infatti, una vera e propria contraffazione di notizie, dalla distorsione manipolativa dei fatti alla disinformazione totale. Avere ben chiaro che il problema esiste è già un primo passo verso una efficace difesa contro il dilagare di notizie false o manipolate.

Bisogna essere consapevoli che sui social, come in TV o sulla carta stampata, possiamo trovare persone che vogliono raggirarci e anche conferenzieri invitati in trasmissioni televisive possono “vendere” prodotti manipolati. In televisione ne abbiamo visti un certo numero. Spesso la polemica alza l’audience, ma ammazza la corretta informazione.

Per proteggerci, la parola d’ordine deve essere “verifica”. La verifica della veridicità delle informazioni, in inglese fact checking, e della validità delle fonti dalle quali sono reperite non deve cedere il posto all’accettazione passiva delle notizie. Verifichiamo, quindi, che ciò che stiamo leggendo o ascoltando arrivi da una fonte attendibile… e poi cerchiamo comunque una conferma da altre fonti attendibili.

In sostanza, il migliore antidoto è informarsi, approfondire gli argomenti e… pensare in maniera critica. La migliore raccomandazione per coloro (la grande maggioranza) che guardano da bordo campo è di stare attenti a ciò che si legge e a ciò che si condivide. Un lettore/ascoltatore intelligente verifica sempre le informazioni con altre fonti attendibili, dubita di analisi che non sono supportate da dati oggettivi, diffida di contenuti carichi di emozioni o titoli eccessivamente drammatici e fa un’attenta riflessione prima di condividere i contenuti. Per verificare la correttezza delle informazioni è necessario non essere ingenui e non prendere tutto per vero di primo acchito. In sostanza, valutare attraverso integrità intellettuale, buon senso, conoscenza e spirito critico. In mancanza di ciò, l’influencer potrà penetrare le nostre difese e raggiungere l’obiettivo di manipolare la realtà, modificando la nostra percezione degli eventi.

L’analista serio, invece, è l’antitesi dell’influencer, la sua negazione, l’opposto più assoluto. L’analista serio non deve influenzare nessuno, non deve persuadere né convincere, semmai deve riconoscere, capire, valutare, raccontare e chiarire. Mica così semplice, a pensarci bene. Se poi saprà vestire di parole appassionate e vere le sue spiegazioni andrà benissimo, stimolerà la curiosità e la voglia di approfondimento e di riflessione critica. Anche questo è il suo mestiere. Un mestiere riservato agli appassionati e che presuppone conoscenza, applicazione, lavoro e costante esercizio. Anche senza follower.

Da parte degli utenti è, quindi, fondamentale imparare a eliminare le falsità e a raccogliere i fatti freddi e puri. Le menzogne e le false accuse, con il progredire della competizione geopolitica, in futuro non faranno che crescere e sicuramente cercheranno di oscurare le vere motivazioni dei conflitti e i loro veri costi.

La verità è la prima vittima della guerra, mentre le bugie, le falsità e la disinformazione sono ormai una parte fondamentale della lotta, strumenti impiegati da influencer cinici e privi di freni. Imparare a riconoscere questi elementi significa essere in grado di tagliare i fili di chi ci vuole burattini passivi e iniziare a comprendere come fare scelte consapevoli.

1 Assistant professor of journalism e project director for propaganda research al Center for Media Engagement (CME)

2 Corriere della sera, 24 dicembre 2023