Tra retrenchment e redeployment: le sfide di Washington

(di Marco Centaro)
22/12/23

Nel marzo del 1946, il presidente Harry Truman lanciò un pacchetto di aiuti da 400 milioni di dollari da destinare a Grecia e Turchia, una manovra che, di fatto, avrebbe rivoluzionato la politica estera americana da lì ai decenni a venire (Varsori, 2015). La giustificazione fornita al Congresso dipingeva un Mediterraneo orientale, in quel momento, particolarmente vulnerabile a minacce ed influenze esterne, celando tuttavia i riferimenti all’espansione sovietica che contestualmente allungava le mani sulla non lontana Europa orientale. Tale finanziamento, di natura anche militare, avrebbe dovuto bloccare l’avanzata comunista e trattenere nella propria (nascente) sfera d’influenza quel mare particolarmente strategico. Una simile manovra rientrò successivamente nel più ampio concetto di containment, una politica estera coperta ideologicamente dalla responsibility to protect, ideata per creare una cintura di Stati da strappare all’Unione Sovietica e da sfruttare come cordone sanitario in nome della libertà e della democrazia. 

La strategia fu talmente efficace da costringere il successore di Truman, Eisenhower, a ripiegarvi dopo aver fallito nel portare avanti la propria politica di roll back: infatti, l’ex generale, mancò sia l’obiettivo di scacciare i comunisti dalla penisola coreana, sia di riconquistare i cuori democratici di Budapest dopo la crisi ungherese, trovandosi così a dover spedire in giro per il mondo il proprio segretario di Stato Dulles alla ricerca di partner antisovietici. Effettivamente, proprio sotto l’amministrazione Eisenhower, gli Stati Uniti riuscirono a stipulare accordi e alleanze (casi illustri il Patto di Baghdad e la SEATO) che permisero a Washington di espandere il proprio soft power dal Vicino Oriente alla Nuova Zelanda, non a caso la fascia di territori denominata Rimland, il cui controllo sarà causa di frequenti sonni inquieti per le successive amministrazioni americane.

Per gli Stati Uniti è sempre stato di vitale importanza poter contare su una rete di alleati dislocati in aree strategiche del globo, proprio perché, come per ogni talassocrazia, la capacità di proiezione militare navale è fondamentale per tutelare i propri interessi strategici.

Al giorno d’oggi le relazioni internazionali non assistono più ad una spaccatura bipolare nei rapporti di potere, un fatto che, di conseguenza, non dovrebbe più spingere l’amministrazione Biden a ricorrere al containment. Eppure, i grattacapi a cui deve far fronte la Casa Bianca mentre si scrive, sembrano ricevere un trattamento non dissimile a quello cui fece ricorso Truman.

Nel febbraio 2022, Mosca scatena un’invasione di terra contro la sempre più occidentale Ucraina, allarmando il comando di una NATO spacciata per cerebralmente morta; mentre ad ottobre l’Iran pare essere artefice (o mandante) di un attacco “alla Pearl Harbour” contro Israele, infiammando una regione ormai avvezza a sanguinose escalation; se si unisce a ciò la percezione di una sempre più aggressiva Cina nello Stretto di Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale (il Dipartimento della Difesa americano stima oltre 300 episodi, in due anni, di attività coercitive del Dragone al di fuori delle proprie acque territoriali1) si può comprendere l’allarmismo che aleggia negli uffici del Pentagono. 

In tutti questi scenari, Washington si trova ad impegnarsi per difendere i propri interessi impersonati dagli alleati aggrediti o minacciati, ricorrendo principalmente allo strumento finanziario o di supporto militare, ma riservandosi il diritto di sorvegliare il mare con l’aggiunta di un ulteriore Carrier Strike Group, specialmente adesso che le milizie yemenite Houthi ostacolano (non senza effetti inflazionistici) il fluido scorrimento del traffico marittimo presso il Mar Rosso.

Similmente a Truman, Biden propone quindi un pacchetto da 106 miliardi di dollari da destinare ai principali quadranti securitari (Ucraina e Israele in testa2), dando prova di forte continuità storica nel non voler lasciare soli i propri alleati. Accanto a ciò è curioso anche l’attuale dispiegamento militare navale, in particolare quello riguardante i gruppi di battaglia delle portaerei: tornati ad essere quattro al di fuori delle Americhe, essi coprono fasce territoriali che fanno risuonare qualche campanella nella memoria, poiché due coprono i mari compresi tra Mediterraneo Orientale e Golfo di Oman (per estensione anche l’Oceano Indiano), mentre altrettanti si spartiscono le acque delle Filippine e del Giappone3.

A quanto pare, Spykman colpisce ancora, e convincono nuovamente le sue teorie sull’importanza di assicurare la propria presenza lungo tutta la fascia costiera che va dall’Europa Occidentale all’Estremo Oriente. Visto l’aumento delle minacce, è quindi perfettamente in linea con i manuali strategici americani la tecnica di circondare il Rimland (e l’Isola Mondo) con gli strumenti cardine della propria proiezione militare, contenendo al tempo stesso le influenze dei propri competitors. 

Ciò però non basta, perché gli Stati Uniti sono al contempo consapevoli che, a seguito delle débacles irachene e afghane, le operazioni boots on the ground costituiscono più un’emorragia economica (e un trauma) piuttosto che un efficace meccanismo di imposizione, il che comporta la necessità di ricorrere a strumenti diplomatici e di cooperazione finalizzati ad assicurarsi il sostegno e la fedeltà dei propri alleati. In modo tutto sommato lineare alle citate politiche di Eisenhower, Biden ha affiancato a tale re-dispiegamento militare una folta attività diplomatica, che ha il pregio di aver concluso o rinnovato accordi, anche di natura militare, con partner storici e nuovi: è curioso ad esempio l’accordo di Camp David di agosto (location forse non casuale), che ha visto sorprendentemente riuniti, in un nuovo framework di cooperazione per la sicurezza, i leader di Giappone e Corea del Sud; anche il rinnovo dell’accordo di mutua difesa con le Filippine ha un significato rilevante, specialmente se si considera la chiarificazione di numerosi coni d’ombra concernenti le possibilità e gli scenari d’intervento militare4; con il nuovo accordo Washington-Helsinki gli Stati Uniti si ritagliano amplissimi spazi di manovra in territori addirittura confinanti con la Russia; infine, il lancio dell’operazione Prosperity Guardian pare essere sia un’occasione per mostrare la risolutezza americana (specialmente quando gli si minaccia il potere marittimo), sia per raccogliere alleati e “devolvere” anche a loro una fetta della responsibility to protect.

La Casa Bianca sa, quindi, che a fronte delle nuove e recenti esplosioni geopolitiche c’è bisogno di invertire il retrenchment avviato da Obama all’inizio della scorsa decade (Graziano, 2018), e pare avviare a tal fine una non dichiarata politica di containment. Washington sa, inoltre, che per tornare a imporsi nei rapporti di potere deve seguire alcune direttrici, soprattutto geografiche. È così, quindi, che potrebbe essere letto il recente redeployment americano. Da Seul e Tokyo, passando per Manila e arrivando in Finlandia, Biden ha fatto in modo di accaparrarsi il sostegno di attori essenziali per contenere i movimenti di Pechino, Pyongyang e Mosca, rafforzando di conseguenza i framework già attivi dell’Aukus e del Quad.

Non contento, il presidente americano ha voluto inviare un messaggio chiaro anche a Teheran, piazzando un’ulteriore portaerei nelle acque utilizzate dallo stesso Iran per rifornire i propri affiliati nella Penisola Arabica e nel Vicino Oriente.

Unendo i puntini si scorge una curiosa linea che non a caso avvolge interamente l’Isola Mondo, a dimostrazione del (forse) rinvigorito desiderio americano di avere l’ultima parola sui “destini del mondo”.

Una tale interpretazione degli ultimi movimenti di Washington trova in parte fondamento nella National Defense Strategy stilata nell’ottobre 2022. Nel documento vengono anche identificate le principali minacce alla sicurezza della “Madre Patria” americana e dei suoi alleati, concentrando l’attenzione verso determinati quadranti e scenari geopolitici (la sigla PRC, stante per People’s Republic of China, compare ben 88 volte su 80 pagine di documento5). Oltre alla Cina, pure Russia, Iran e Corea del Nord vengono menzionati, ed è forte accanto a ciò l’appello a non abbandonare i propri alleati, un tassello fondamentale per il contenimento delle minacce agli equilibri mondiali. 

Insomma, i dem di Biden percepiscono il bisogno di una rinnovata assertività americana che riaggiusti le gravi instabilità che oggi affliggono la realtà geopolitica (a cui si affianca non a caso l’epiteto di anarchica). Per fare ciò gli Stati Uniti devono riassumere il ruolo di guida, pur necessitando del supporto di quanti più partner possibili.

Il problema è che sia le condizioni domestiche, sia quelle esterne, non sono per nulla paragonabili (in peggio) a quelle del 1946. Truman non ebbe grosse difficoltà nel convincere il Congresso ad approvare i pacchetti per Grecia e Turchia, mentre Biden fatica oggi a ricevere il via libera per un nuovo finanziamento pro-Ucraina, incluso nel package da 106 miliardi di dollari sopracitato. I senatori del GOP ("Grand Old Party", il partito repubblicano, ndr), ma anche una larga parte dell’elettorato in generale, non sono più convinti che l’Ucraina sia una priorità per la politica estera americana (specialmente quando il captagon dilaga e i confini con il Messico diventano più permeabili che mai). Per certi versi pare che l’orientamento al messianismo sia già bloccato in partenza, ossia dall’interno6; una condizione agli antipodi rispetto al secondo dopoguerra. 

Inoltre, quando gli Stati Uniti ebbero modo di avviare la loro politica espansiva ed iniziarono ad attrarre quanti più Stati possibili entro la propria sfera d’influenza, presentavano uno strapotere tale da divenire un partner quasi obbligato.

Oggi la credibilità Stars and Stripes si vede ridimensionata in maniera evidente e soprattutto nell’area del Golfo. Lo dimostrano, ad esempio, i ripetuti tagli alla produzione petrolifera dell’OPEC che vedono Russia e Arabia Saudita serrare i ranghi contro le opposte pretese di Washington (costretta ad un intenso consumo delle proprie riserve petrolifere). A ciò si aggiunga, ancora, la rapida crescita di molti più poli d’influenza, anche regionali, capaci di prospettare alternative appetibili rispetto al predominio del dollaro; blocco BRICS in testa. 

La differenza sostanziale tra oggi ed il 1946 è che Washington non è la sola potenza in grado di esercitare pressioni ed influenze tali da plasmare il sistema internazionale a piacimento. Si tratta di una questione di distanza in termini di potere: se un tempo gli Stati Uniti erano i padroni incontrastati (specialmente verso la fine del Novecento), ad oggi il gap non con una, ma con diverse potenze si è ridotto notevolmente. Le forze revisioniste, adesso, possono permettersi di avere voce in capitolo, ed è qualcosa che viene percepito dal “popolo eletto” come una minaccia non alla sicurezza, ma alla propria esistenza (Graziano, 2018). 

Il retrenchment a cui sono stati costretti gli Stati Uniti, principalmente a causa di un evidente e mal calcolato overstretch, ha raggiunto il culmine con il disastroso ritiro dal Medio Oriente del 2021. Pertanto, è plausibile che Biden (consapevole di entrare a breve in campagna elettorale) stia tentando di innescare un processo di lento revival, destinato a far risorgere dalle ceneri la fenice americana, riaffermando il proprio dominio su un sistema internazionale alla deriva dove le minacce aumentano di pericolosità e di numero.

Se ciò è vero, pare che il redeployment segua una strategia già vista in passato. Una che permetta di conquistare il Rimland, circondare l’Heartland e mantenere il posto sul trono recuperando l’assertività perduta.

Tra le tendenze isolazioniste interne e i piuttosto agguerriti competitors esterni, infine, non è facile immaginare l’esito di simili politiche, ma la domanda rimane: la tanto temuta “anaconda” americana di Haushofer riuscirà a stritolare l’Isola Mondo?

 

Bibliografia

Graziano M., L’isola al centro del mondo. Una geopolitica degli Stati Uniti, Bologna, Il Mulino, 2018.

Varsori A., Storia internazionale. Dal 1919 a oggi, Bologna, Il Mulino, 2015.