Attori, cantanti e sportivi #withrefugees: come non condividere?

28/06/18

Il 20 giugno scorso si è celebrata la giornata mondiale del rifugiato, in un clima politico (in Italia, ma non solo) surriscaldato dal deciso cambio di rotta attuato dal neo governo italiano in materia di approdo, nei propri porti, delle navi appartenenti alle varie ONG (organizzazioni non governative), trasportanti migranti.

Ancora risuona nella eco mediatica mondiale la vicenda della nave Aquarius, a cui, in queste ore, si è aggiunta quella della SeaLife.

Si sono susseguiti articoli su articoli, e diversi attori, cantanti o appartenenti al mondo dello sport si sono prodigati nel testimoniare la propria vicinanza ai rifugiati, facendosi fotografare mentre reggono un cartello con la scritta “#withrefugees” (ossia, dalla parte dei rifugiati).

Tante le polemiche, anche su questa iniziativa ma, in punto di diritto, il messaggio è corretto e condivisibile e, peraltro, in linea, forse inconsapevolmente, con la nuova politica italiana in materia che, invece, si voleva probabilmente criticare.

E vediamo il perché, anche al fine di agevolare una riflessione più puntuale su questa importante tematica.

Tutto nasce dalla confusione che si crea tra i vari termini che, nel complesso e variegato mondo mediatico, purtroppo, conducono spesso ad una vera e propria disinformazione, a volte dolosa, a volte colpevolmente negligente, e di certo non meno grave della prima.

Come non stare dalla parte di un rifugiato?

Secondo la convenzione di Ginevra del 1951, infatti, costui viene definito come una persona che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinioni politiche, si trova fuori del paese di cui ha la cittadinanza, e non può o non vuole, a causa di tale timore, avvalersi della protezione di tale paese; oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra””.

Dal punto di vista giuridico, dunque, emerge che gli elementi essenziali che debbano connotare tale figura siano:

  1. il fondato timore di essere perseguitato;

  2. i motivi della persecuzione;

  3. il cittadino si trovi già fuori dal territorio dello stato di cui possiede la cittadinanza (o dove domicilia, se apolide) e, per il timore di persecuzione, non possa o voglia porsi sotto la protezione di detto stato

I motivi della persecuzione

La persecuzione, in particolare, per essere rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, deve essere riconducibile ai seguenti motivi, definiti dall’art. 8 del D.Lgs. 251/2007:

  1. “razza”: da ricondursi al colore della pelle, alla discendenza, all’appartenenza ad un determinato gruppo etnico;

  2. “religione”: in riferimento alle convinzioni teiste, non teiste e ateiste; alla partecipazione o all’astensione da riti, agli atti di professione di fede e alle forme di comportamento fondate su un credo o da esso prescritte;

  3. “nazionalità”: nel cui ambito va ricompresa l’appartenenza a un gruppo caratterizzato da un’identità culturale, etnica o linguistica, comuni origini geografiche o politiche o l’affinità con la popolazione di un altro stato;

  4. “particolare gruppo sociale”: da intendersi come aggregazione di membri che condividono una caratteristica innata o una storia comune, che non può essere mutata oppure che condividono una caratteristica che è così fondamentale per l’identità o la coscienza che non dovrebbero essere costretti a rinunciarvi;

  5. “opinione politica”.

L’art. 7, comma 2 del citato D.Lgs. 251/2007, specifica, in via esemplificativa, la forma che possono assumere gli atti di persecuzione:

  1. atti di violenza fisica o psichica;

  2. provvedimenti legislativi, amministrativi, giudiziari o di polizia, discriminatori per loro natura o attuati in modo discriminatorio;

  3. azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie;

  4. rifiuto di accesso a mezzi di tutela giuridica e conseguente sanzione sproporzionata o discriminatoria;

  5. azioni giudiziarie o sanzioni in conseguenza del rifiuto a prestare servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di gravi crimini;

  6. atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia.

Ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, la persecuzione può provenire:

  1. dallo Stato;

  2. da partiti od organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio;

  3. da soggetti non statuali, ma solo se i soggetti di cui sopra non possono o vogliono fornire protezione contro le persecuzioni, laddove- si badi bene-, per protezione si intende l’adozione di adeguate misure per impedire gli atti persecutori, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, perseguire penalmente e punire gli atti di persecuzione e nell’accesso del richiedente a tali misure (artt. 5 e 6, D.Lgs. 251/2007)

Casi di esclusione

Importante sottolineare che, pur in presenza dei requisiti sopra illustrati, il richiedente non possa ottenere lo status di rifugiato o la protezione sussidiaria, quando sussistano fondati motivi per ritenere (art. 10 e 16 D.Lgs. 251/2007) che:

a) abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità, quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;

b) abbia commesso al di fuori del territorio italiano, prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità di rifugiato, un reato grave ovvero che abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possano essere classificati quali reati gravi (laddove la gravità del reato è valutata anche tenendo conto della pena prevista dalla legge italiana per il reato non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni);

c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite.

Peraltro, la stessa Convenzione del 1951 specifica, all’art. 33, co. 2, che “Il beneficio di detta disposizione (riguardante il famigerato principio di non respingimento di colui che richiede lo status di rifugiato) non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato”.

Così le cose, dunque, è evidente che nessuna persona possa essere contraria, in linea di principio, a stare dalla parte dei rifugiati (l’unica categoria a trovare definizione nel diritto internazionale ed il cui status, per determinate cause, può peraltro essere perso) da cui invece si devono distinguere i migranti (o “immigrati”) ed i richiedenti asilo.

I primi sono coloro che decidono di lasciare volontariamente il proprio paese d’origine per cercare un lavoro e condizioni di vita migliori e, non essendo perseguitati nel proprio paese, possono far ritorno a casa in condizioni di sicurezza.

I secondi, invece, sono persone che, avendo lasciato il proprio paese, chiedono il riconoscimento dello status di rifugiato o altre forme di protezione internazionale (si badi: fino a quando non viene presa una decisione definitiva dalle autorità competenti di quel paese, tali persone hanno diritto di soggiornare regolarmente nel paese, anche se giunti senza documenti d’identità o in maniera irregolare), nei termini anzidetti.

Una ultima notazione merita, ancora, il termine profugo che, in maniera generica, indica chi lascia il proprio paese a causa di guerre, invasioni, rivolte o catastrofi naturali e che dunque poco c’entra con quello di rifugiato.

Chissà se i testimonial vari fossero a conoscenza di tutto questo. Confidiamo di sì.

Avv. Marco Valerio Verni

(foto: UNHCR)