Sui recenti mandati di arresto emessi dalla Corte Penale internazionale, la lezione di stile del ministro Crosetto

(di Avv. Marco Valerio Verni)
28/11/24

Mentre in queste ore si assiste, almeno in teoria, all’entrata in vigore, in Libano, del “cessate il fuoco” tra l'esercito di Israele ed Hezbollah, non si fermano le polemiche dopo la recente e, per certi versi, storica, decisione della Pre-Trial Chamber I della Corte Penale Internazionale del 21 novembre scorso, di accogliere la richiesta del suo procuratore capo in merito, in particolare, all’emissione di un mandato di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, e del suo ex ministro della difesa, Yoav Gallant, oltre che del capo del braccio armato di Hamas, Mohammad Deif.

Nel mondo, come nel nostro Paese, si sono scatenate varie e contrastanti reazioni e, tra quelle di segno negativo, alcune, effettivamente, sono risultate sopra le righe, ben oltre quella che si potrebbe definire “critica giudiziaria”.

A livello italiano, a fornire una lezione di stile, almeno a parere dello scrivente, è stato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, il quale, pur criticando il merito del provvedimento in questione, ha altrettanto affermato che, comunque, all’occorrenza, l’Italia rispetterà il decisum della Corte dell’Aja.

Il titolare di via XX Settembre, all’indomani della decisione in questione, ha infatti affermato1: "Ritengo sia una sentenza sbagliata, che ha messo sullo stesso piano il presidente israeliano e il ministro della Difesa israeliano con il capo degli attentatori, quello che ha organizzato e guidato l'attentato vergognoso che ha massacrato donne, uomini, bambine e rapito persone a Israele, che è quello da cui è partita la guerra. Sono due cose completamente diverse", aggiungendo che "Da una parte c'è un atto terroristico fatto da un'organizzazione terroristica che colpisce nel profondo cittadini inermi, dall'altra c'è un Paese che a seguito di quest'atto va e cerca di estirpare un'organizzazione criminale terroristica. Poi, se vogliamo giudicare come Israele si è mosso a Gaza, quanto della forza usata fosse necessaria da usare, quanto dei danni collaterali, che fa senso chiamare in questo modo con delle vittime innocenti, quante migliaia ci sono state e quante linee rosse siano superate, è un altro discorso".

Per poi chiosare affermando che “Non penso che la Corte Penale Internazionale dovesse intervenire con questa sentenza a tre. Ciò detto, se arrivassero in Italia dovremmo arrestarli perché noi rispettiamo il diritto internazionale".

Il giusto connubio tra “critica giudiziaria” e, comunque, rispetto del provvedimento di una Corte cui - è bene ricordarlo - l’Italia non solo ha aderito, ma ha visto anche ospitare la stesura del relativo Statuto, avvenuta nel 1998, proprio nella sua capitale, Roma.

Ciò a differenza di altre dichiarazioni, rilasciate tanto da alcuni esponenti nazionali che internazionali che, all’opposto, oltre a gridare allo scandalo (che, di per sé, sarebbe, come detto, del tutto lecito, essendo ognuno libero di criticare anche un provvedimento giudiziario) hanno anche manifestato, da parte di chi le ha emesse, la ferma volontà di non rispettarne, all’occorrenza, il contenuto; in alcuni casi, lasciando presagire, addirittura, l’applicazione di sanzioni - avete letto bene, sì - nei confronti dei magistrati dell’Aja, o, ancora, sfociando in vere e proprie offese, che hanno visto la Corte essere accusata di antisemitismo o di essere “un giocattolo politico al servizio degli estremisti che vogliono minare la sicurezza e la stabilità del Medio Oriente”, fino all’evocazione di “un nuovo processo Dreyfus”.

Uno screditare, insomma, l’autorevolezza di un organo come quello in commento molto inopportuno (e si usa un eufemismo) e pericoloso.

In tale ottica, occorre fare, ancora una volta, un amaro plauso allo stesso procuratore capo presso la Corte Penale Internazionale, Karim Khan, che, nuovamente (la prima volta era stato costretto a farlo proprio all’indomani della richiesta dei mandati di arresto in questione), ha dovuto ricordare che se qualcuno dovesse, per l’appunto, superare il limite, arrivando ad ostacolare od impedire il lavoro della Corte, potrebbe egli essere costretto ad attivare la procedura di cui all'art. 70 dello Statuto della suddetta (Corte Penale Internazionale): “It is critical in this moment that my Office and all parts of the Court, including its independent judges, are permitted to conduct their work with full independence and impartiality. I insist that all attempts to impede, intimidate or improperly influence the officials of this Court must cease immediately. My Office will not hesitate to act pursuant to article 70 of the Rome Statute if such conduct continues”.

Come già ricordato in alcuni precedenti contributi qui2, tale articolo, rubricato "Reati contro l'amministrazione della giustizia", statuisce che:

1. La Corte eserciterà la propria giurisdizione sui seguenti reati commessi ai danni della amministrazione della giustizia, quando siano commessi intenzionalmente:

a) rendere falsa testimonianza, malgrado l'obbligo di dire la verità assunto in applicazione dell'art. 69.1;

b) presentare elementi di prova che la parte sa essere falsi o falsificati;

c) subornare testi ostacolare o intralciare la libera presenza o testimonianza di un teste, attuare misure di ritorsione nei confronti di un teste per la sua testimonianza, o distruggere o falsificare elementi di prova o intralciare la raccolta di tali elementi;

d) ostacolare, intimidire o corrompere un funzionario della Corte allo scopo di costringerlo o persuaderlo a non compiere, o a compiere impropriamente, i suoi obblighi;

e) attuare ritorsione contro un funzionario della Corte per compiti svolti da questo o da altro funzionario;

f) sollecitare o accettare un compenso illecito in qualità di funzionario o agente della Corte in relazione alle proprie mansioni ufficiali.

2. I principi e le procedure che disciplinano l'esercizio della giurisdizione della Corte sulle violazioni di cui al presente articolo saranno quelli previsti nel Regolamento di procedura e prova. Le condizioni per fornire cooperazione internazionale alla Corte in relazione ai procedimenti di cui al presente articolo sono quelle date dalla legislazione dello Stato a cui ci si rivolge.

3. In caso di condanna, la Corte può comminare una pena detentiva non superiore a cinque anni o un'ammenda, secondo quanto dispone il Regolamento di procedura e prova, oppure entrambe.

4. a) Gli Stati Parti estendono le norme del loro diritto penale che sanzionano i reati contro l'integrità dei propri procedimenti investigativi e giudiziari ai reati contro l'amministrazione della giustizia indicati nel presente articolo commessi nel proprio territorio o da loro cittadini;

b) su richiesta della Corte, ogni qualvolta lo riterrà opportuno, lo Stato Parte sottoporrà il caso alle sue autorità competenti ai fini dell'azione penale. Le autorità nazionali competenti tratteranno tali casi con diligenza e dedicheranno risorse sufficienti perché si possano svolgere con efficienza.”.

Occorre ricordare, per tornare ai mandati di arresto in questione, che:

  1. essi sono stati chiesti dall’organo inquirente, ossia il procuratore capo della Corte, che ha agito sulla base delle fonti indiziarie raccolte (e che, per giunta, riguardano “solo” i fatti commessi dall’ottobre 2023 fino al maggio di quest’anno);

  2. che costui, nel suo lavoro, è stato coadiuvato da un gruppo di giuristi di caratura internazionale;

  3. che, su tale richiesta, si è poi pronunciato un altro organo giudicante, che, evidentemente, ha trovato fondata la richiesta.

Ad ogni modo bisogna ricordare, parimenti, che qualsiasi persona indagata e, poi, eventualmente, imputata, anche di fronte alla Corte Penale Internazionale, deve ritenersi innocente fino a che non sia intervenuta, ed in via definitiva, una sentenza di segno contrario, ivi compresi, dunque, i destinatari dei mandati di arresto in commento.