Agosto caldo in Libia

(di Paolo Lolli)
23/09/24

I recenti avvenimenti e sviluppi in Cirenaica e in Tripolitania rappresentano un vero e proprio campanello d’allarme. Nonostante gli accordi di Ginevra del 2020 abbiano avuto il merito di portare a una cessazione delle ostilità fra le parti, riaffiorano in superfice criticità e tensioni mai sopite, capaci di far sprofondare definitivamente la Libia nel caos. Difficile, se non impossibile stabilire se sia ancora attuale parlare di Libia, verosimilmente sarebbe più corretto parlare delle regioni storiche del Paese (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan).

Il mese di agosto è stato contraddistinto da un progressivo aumento di azioni unilaterali dei due centri politici libici e di provocazioni reciproche che hanno esacerbato le tensioni.

Nella prima settimana del mese le diverse milizie che compongono il LNA (Libyan National Army), guidate dal generale Haftar e dal figlio Saddam, hanno marciato a Sud-Ovest verso Gadames, cittadina ubicata nel distretto di Nalut, a ridosso dei confini tunisini e algerini nonché valico di frontiera a circa 500 km dalla capitale libica. Nonostante questa iniziativa sia stata giustificata da Haftar quale azione necessaria alla messa in sicurezza delle aree di frontiera, in Tripolitania e altrove temono invece che ciò possa essere una copertura rispetto a ben altri fini, su tutti la preparazione per un nuovo assalto alla capitale. Bisogna risalire al 4 aprile del 2019 quando Haftar lanciava quella che, per il momento, rimane l’ultima offensiva verso Tripoli. Allora solo il tempestivo intervento turco scongiurò il peggio per il Governo di accordo nazionale, al tempo guidato da Fayez-al-Serraj.

Oltre all’intraprendenza delle milizie del LNA, un altro decisivo fattore ha contribuito a destabilizzare ulteriormente la situazione: il caso del giacimento di Sharara. Nonostante la chiusura di quest’ultimo sia stata frettolosamente derubricata quale episodio isolato e frequente in quel contesto, in un secondo momento, è deflagrata in una nuova e profonda crisi energetica libica.

L’Akakus Oil Corporation, una delle più grandi compagnie petrolifere del Paese, il 7 agosto ha annunciato l’interruzione delle forniture di greggio dal giacimento di Sharara al porto di Al-Zawiya imputando l’evento e le responsabilità connesse al movimento del Fezzan. In realtà, per come riportato dal Libya Observer1 e da Rivista Energia2 , dietro la chiusura del giacimento ci sarebbe Saddam Haftar. Il figlio dell’uomo forte della Cirenaica, una volta appreso dell’esistenza di un presunto mandato d’arresto spagnolo3 per contrabbando di armi nei suoi confronti, avrebbe, per rappresaglia, imposto la chiusura dell’importante giacimento in quanto gestito anche dalla società iberica Repsol. Se inizialmente si poteva ipotizzare che la mossa mirasse a danneggiare la compagnia spagnola, sin da subito è emersa l’intenzione di colpire, delegittimandolo, il fragile governo di unità nazionale di Dbeibeh.

La conferma che non si trattasse di una mera disputa ascrivibile al controllo dell’oro nero, risorsa da sempre trainante la claudicante economia libica, ma di una tattica multivettoriale e aggressiva adottata dai vertici dell’Est del Paese è arrivata qualche giorno dopo. La camera dei rappresentanti, presieduta da Aguila Saleh Issa, il 13 agosto ha dichiarato decaduti i mandati del premier Dbeibeh e del consiglio presidenziale. Inoltre, ha conferito legittimità al governo guidato dal primo ministro Hamad4. Sebbene sul piano simbolico la presa di posizione del governo di Tobruk sia significativa, a livello pratico ciò non comporterà cospicui cambiamenti. Già coesistono sul territorio nazionale parlamenti, governi e forze armate paralleli. L’aspetto rilevante, oggi, sta nell’inasprimento dei toni da entrambe le parti, figlio della volontà condivisa di esautorare sotto tutti i punti di vista l’altro.

Negli stessi giorni, a Tripoli e nella periferia meridionale della capitale, sono infuriati feroci combattimenti fra milizie rivali5. Gli scontri, oltre a provocare diverse vittime, hanno messo in luce un altro aspetto saliente delle Libie: la sempre più scarsa influenza e “autorità” delle istituzioni, soprattutto quelle della Tripolitania, nei confronti delle milizie, in contrapposizione l’una contro l’altra per il controllo di risorse e infrastrutture, con lo scopo di imporre la propria agenda e porsi da proxies verso gli attori esterni e interni.

Dal 18 agosto il braccio di ferro tra Tripoli e Tobruk ha coinvolto anche la Banca centrale della Libia (BCL). Quest’ultima, essendo l’istituzione deputata a gestire e smistare i proventi derivanti dalla National Oil Corporation, svolge un compito fondamentale. Il suo inserimento nella disputa tra Ovest ed Est rischia di trascinare il Paese nella più grave crisi dal 2019. Il consiglio presidenziale, con sede a Tripoli, ha rimosso6, accusandolo di corruzione, il governatore della Banca centrale Sadir-Al-Kabir e l’intero consiglio d’amministrazione. La defenestrazione di Al-Kabir, causa simpatie mostrate verso Est, unita alla sua fuga a Istanbul7 ha provocato la reazione del generale Haftar. A nulla sono valsi gli appelli internazionali al dialogo al fine di trovare una soluzione. Dal 26 agosto, da Tobruk, è partito l’ordine di fermare la produzione di petrolio quale arma di pressione verso Tripoli. Come confermato dallo stesso Saleh8, presidente della camera dei rappresentanti, il blocco continuerà fino a quando Al-Kabir non tornerà al suo posto.

Per meglio comprendere il tipo di relazioni instauratesi fra i due centri politici libici e le varie milizie presenti su tutto il territorio del Paese, è soprattutto alla regione del Fezzan che dobbiamo prestare attenzione. Di vitale importanza per la posizione geografica ricoperta, corridoio che collega il Sahel alle coste libiche quindi al Mediterraneo, la desertica regione meridionale della Libia è quella che sconta livelli di instabilità e precarietà maggiori. Quaggiù, le principali tribù (Tuareg, Tebu e Awlad Suleiman)9, sono dedite al traffico illecito di armi, droga e persone fin dai tempi del regime del colonello Gheddafi. La sostanziale libertà concessa a queste etnie di sostentarsi attraverso queste pratiche, in cambio della fedeltà al regime, è stata la ricetta di successo adottata per coagulare la altrimenti troppo variegata popolazione libica. Una volta venuto meno il collante, capace di smussare le tendenze autonomiste, riemersero le accese rivalità riposte in soffitta ma mai sepolte, soprattutto fra Tuareg e Tebu. Rivalità che vengono sfruttate egregiamente dai due centri politici per penetrare nella strategica regione e acquisire un vantaggio tattico sul rivale, in un gioco di alleanze precarie ed equilibri volatili che a loro volta influenzano la situazione politica e militare della Tripolitania e della Cirenaica. Il Fezzan come cartina tornasole della Libia dove l’eccessiva tribalizzazione, da sempre caratteristica saliente delle popolazioni libiche, non pare più idonea a essere incanalata verso un interesse di portata più ampia.

Sebbene la “politica” dei blocchi energetici non sia niente di nuovo a quelle latitudini, il parziale blocco della maggioranza delle infrastrutture dedite alla produzione ed esportazione di petrolio libico non è sostenibile per un lungo periodo. Il rischio, oltre all’aumento delle tensioni fra le parti, sorge dalla possibilità di interventi armati per superare lo stallo. Lo stallo creatosi minaccia gravemente i pagamenti nazionali e internazionali. Il minimo di stabilità politico-economica, raggiunta con gli accordi di Ginevra, pare un miraggio.

Un eventuale reinsediamento di Al-Kabir non risolverà i problemi del Paese. La Libia pare pronta ad aggiungere un nuovo capitolo alla propria storia.

9Il Fezzan "anarchico", la crisi libica e l'Italia - Geopolitica.info

Foto: presidenza del consiglio dei ministri (visita di maggio 2024 del primo ministro Meloni in Libia)