"Non è giusto. Per favore non lasciateci soli dopo venti anni di collaborazione. Non vi abbiamo lasciati soli quando avevate bisogno di aiuto. Per favore, non dimenticateci".
L'appello accorato campeggia in uno striscione con due bandiere italiane per parte davanti l'edificio del governatore di Herat in Afghanistan il 9 giugno scorso. A portalo sono alcuni dei collaboratori afgani che hanno lavorato per lunghi anni con i militari del contingente italiano nella base militare della città, Camp Arena.
Protestano perché hanno fatto la richiesta di asilo per venire in Italia ma non sanno ancora nulla e hanno paura per le loro vite.
"Da quando è stato annunciato il ritiro delle truppe Nato dall'Afghanistan, i talebani hanno attaccato e preso la maggior parte delle aree dell'Afghanistan. Prenderanno la città e cercheranno le persone che hanno lavorato con la Nato e le puniranno, le uccideranno!" - afferma I.A. che dal 2009 ha lavorato nei mercatini che si svolgevano all'interno della base. È molto preoccupato così come lo sono i suoi colleghi, circa un'ottantina di persone tra negozianti, operai e collaboratori a vario titolo, che ancora in maggio hanno presentato domanda di asilo al nostro Commando della base per poter venire in Italia. Ma ancora non hanno ricevuto risposta. Chiedono aiuto a chiunque possa darlo perché vedono partire per il nostro paese, assieme alle famiglie, coloro che hanno lavorato come interpreti mentre loro non sanno che fine faranno. E questo li manda nel panico.
Ancora di più il fatto che hanno appena saputo che solo diciassette di loro – al momento – hanno avuto la domanda di asilo approvata. "Perché la richiesta non è stata accordata anche a noi? Tanti di noi hanno lavorato per voi da otto, dieci, quindici anni e più. Perché non ci date ancora una risposta?"
Sono spaventati. Si sente dal loro tono angosciato, dicono e scrivono di avere paura, di temere per la loro vita e quella dei propri figli. "Quando le truppe italiane lasceranno Herat, noi saremmo minacciati per il fatto di averci lavorato e potremmo perdere le nostre vite. Ho lavorato con voi per 12 anni e ho svolto il mio lavoro onestamente" – dice più volte in inglese e in italiano N.A. per essere sicuro di essersi fatto capire.
"La situazione della sicurezza peggiora di giorno in giorno. Abbiamo paura, sia di giorno che di notte, e quando dobbiamo uscire per andare al mercato indossiamo vestiti semplici e le mascherine anti-Covid" – aggiunge M.A.
Una indicazione sul destino degli interpreti e dei collaboratori a vario titolo è già stata data dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini, che il 4 giugno scorso era volato a Herat per la cerimonia dell'ammaina bandiera italiana per la chiusura ufficiale della base. Anche se le operazioni di dismissione sono ancora in corso e dovrebbero terminare entro la fine di questo mese e inizio del prossimo.
"Non abbandoniamo il personale civile afghano che ha collaborato con il nostro contingente ad Herat e le loro famiglie: 270 sono già stati identificati e su altri 400 si stanno svolgendo accertamenti. Verranno trasferiti in Italia a partire da metà giugno" – ha dichiarato in quell'occasione il ministro.
Ma questa rassicurazione non è sufficiente a dare loro la pazienza di aspettare o meglio, la sicurezza che la richiesta di asilo sia stata accettata. Quasi tutti hanno inoltrato la domanda ancora in maggio e per avere rassicurazioni alcuni di loro hanno scritto anche all'ambasciata italiana. Ma non riescono ad avere alcuna risposta. "Dal 31 maggio non rispondono più alle nostre e-mail, come se l'indirizzo dell'ambasciata italiana non esistesse più" – afferma A.A., che ha lavorato a Camp Arena dal 2010. È diplomato, la moglie è laureata, e negli anni ha svolto diverse mansioni. È stato impiegato nello spaccio, nei negozi detti PX e nella logistica.
"Non riusciamo neanche a contattare telefonicamente l'ambasciata" – ribatte esasperato N.A. che nella base ha lavorato dal 2005.
C'è da dire che per tanti di loro il lavoro si è fermato l'anno scorso, con l'epidemia iniziata nel marzo 2020, che ha portato a chiudere tutte le attività e mercati all'interno della base, lasciando in piedi solo quelle essenziali. Ma per loro si è trattato di una vera mazzata. A casa, senza salari o proventi con cui vivere, con l'angoscia di essere additati come collaborazionisti degli occidentali una volta che le truppe lasceranno per sempre questa terra che non conosce pace dal 1979. E senza poter sapere che fine faranno.
"Germania, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno già dato asilo ai propri dipendenti e collaboratori. Perché l'Italia non ci fa sapere nulla?" - chiedono accorati all'unisono.
Ad amplificare il terrore in cui vivono queste persone, sono le notizie sui talebani che arrivano in città.
"Da quando c'è stata la notizia che le truppe Nato hanno deciso di lasciare l'Afghanistan, c'è stata una veloce escalation della situazione qui, che peggiora di giorno in giorno – dice Y.A. – Ogni giorno ci sono dei distretti che vengono presi, occupati dai talebani. Anche qui a Herat la situazione è pessima. Non possiamo girare per la città in sicurezza e non possiamo lasciare le nostre case dopo le 8 di sera".
Le notizie che arrivano in continuazione sono allarmanti. "I talebani hanno issato le loro bandiere a Islam Qala, a un centinaio di chilometri da Herat verso il confine ovest con l'Iran, ma sono arrivati anche sulla diga Salma a ovest di Herat" afferma N.A. Una notizia riportata anche dalle tv locali, che affermano che 700 unità di insorti sarebbero attorno alla diga, pronti a prenderne possesso in quanto punto strategico. Arrivano anche notizie di persone che scappano dal distretto di Zinda Jan, a trenta chilometri circa a ovest di Herat. Lì, in una strada vicino al fiume, uno snodo importante, gli insorti hanno istituito un posto di blocco. Chiedono i documenti alla gente e prelevano coloro che sono di etnia Tagiki. Spariscono, non si vedono più.
Ma qualcuno degli insorti si vede anche in città. "A volte si notano per strada, mentre la percorrono su un motorino" – aggiunge A.A. "Nel villaggio dove vive la mia famiglia, fuori Herat, si sono già presentati per pretendere dei soldi".
Di questa ottantina di persone in attesa di risposta per venire in Italia, molti sono specializzati, diplomati o laureati.
Si tratta di personale qualificato, che ha lavorato con impegno per le nostre Forze Armate. Molti hanno in mano attestati e lettere di apprezzamento, riconoscimento per l'ottimo lavoro svolto e per essere stati di fedele supporto, da parte dei carabinieri e dal PRT, il Provincial Reconstruction Team che fino al 2014 si occupava dei progetti di cooperazione civile e militare nella regione.
"Se sanno che abbiamo collaborato con voi italiani, i talebani saranno orgogliosi di ucciderci – dice ancora I.A. – Per favore, non dimenticateci e salvate le nostre vite e quelle dei nostri figli. Vi chiediamo di non dimenticarci".
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