La Francia ha temporaneamente sospeso le operazioni militari congiunte con le forze maliane dopo il colpo di stato del colonnello Assimi Goïta dello scorso 24 maggio. Ad annunciarlo è stato in un comunicato il Ministero delle Forze Armate transalpino dal quale è stato anche spiegato che la decisione verrà rivista nei prossimi giorni in attesa di garanzie politiche da parte del governo maliano sul processo di transizione che dovrebbe portare, nel rispetto dell’agenda precedentemente sancita, a nuove elezioni nel febbraio 2022.
Per il momento le truppe francesi continueranno ad operare in Mali contro i jihadisti ma senza più fornire supporto, coordinamento e consulenze all’Esercito maliano; il comunicato ministeriale specifica che “nell’attesa delle garanzie richieste, la Francia […] ha deciso di sospendere, a titolo conservativo e temporaneo, le operazioni militari congiunte con le forze maliane, nonché le missioni di consulenza a loro sostegno”.
Il presidente ad interim Bah Ndaw e il primo ministro Moctar Uane si sono dimessi la scorsa settimana, due giorni dopo il loro arresto da parte dell'Esercito maliano dopo un travagliato rimpasto di governo che ha acuito la crisi politico-istituzionale nella quale versa il Paese saheliano. Già alla fine di maggio gli Stati Uniti avevano sospeso la cooperazione militare con il Mali e la Francia si è inserita su questa stessa linea seguendo l’indicazione del presidente Emmanuel Macron, il quale aveva annunciato fin dal 25 maggio di essere pronto ad optare per dure sanzioni nei confronti di Goïta e di quanti in Mali invitavano ad aprire al dialogo con i jihadisti per mettere fine al conflitto in atto.
Le dichiarazioni di Macron si erano inserite nel più ampio dibattito politico – ma anche con risvolti tecnico-militari interessanti – francese sull’Operazione Barkhane, sulle capacità operative dei militari africani del G5-Sahel e più in generale sul ruolo di Parigi nelle questioni geostrategiche dell’Africa occidentale. All’Eliseo non nascondono infatti le perplessità su un impegno militare particolarmente gravoso per la Francia che ha 5.100 militari impegnati sul campo nel Sahel e che, inoltre, non riceve il necessario supporto dagli alleati africani (v.articolo) nella lotta al terrorismo. Alla base di questi ragionamenti c’è un’idea molto semplice: la Francia non può combattere da sola l’islamismo militante nel Sahel e senza istituzioni stabili ed internazionalmente legittimate negli Stati alleati. Ecco perché ai partecipanti della “coalizione di volenterosi” della Task Force Takuba è stato chiesto un maggiore sforzo sul campo ed anche l’annuncio dell’ormai prossimo intervento italiano nella regione è stato favorevolmente accolto a Parigi (v.articolo).
Già da questa estate era intenzione dei Francesi iniziare a ridurre gradualmente il proprio contingente nel Sahel chiedendo supporto agli alleati europei. In verità il desiderio di Macron, a meno di un anno dalle prossime elezioni presidenziali, era quello di ridurre immediatamente ed anche con “tagli netti” la presenza francese in Africa a causa dei costi economici ed umani che Barkhane si porta dietro, ma di fatto l’instabilità dei Paesi del G5-Sahel e l’incapacità militare dei loro eserciti condiziona inevitabilmente le decisioni transalpine sulla questione, cosicché a fronte delle sanzioni emesse ad esempio contro il Mali, non è credibile – a meno di non interpretarla solo come una minaccia per “rimettere in riga” un alleato inaffidabile – nessuna ipotesi di ritiro francese dal Sahel. Certo è che gli ultimi avvenimenti nella regione costringeranno anche i nostri soldati impegnati nella Task Force Takuba – e di riflesso i decisori politici italiani – ad avere un ruolo decisamente più attivo nel conflitto di quanto da Roma vogliano o possano dire.
Foto: Opération Barkhane