Nel suo tragico e repentino diffondersi, sino a oggi il Coronavirus sembrava aver voluto risparmiare la Corea del nord. O per lo meno questo il suo leader sosteneva.
Mentre scriviamo però, quando ancora incerte appaiono le sorti di Kim Jung-un (v.articolo), si ha per la prima volta notizia di un contagio di covid 19 nel paese a nord del 38° parallelo.
Lo sostiene Newsweek1 nella sua edizione online, secondo cui alla fine di marzo sarebbero sorti ben tre focolai in altrettante aree2 del paese: la capitale Pyongyang, la provincia settentrionale di Hwanghae e quella meridionale di Hamgyong.
Pur confinante con due paesi fortemente colpiti dal virus - la Cina, dove è nato e dalla quale dipende sul piano economico e alimentare, e la Corea del sud -, il regime di Kim ha sino a oggi negato la presenza al suo interno (non ancora confermata) del covid 19.
Risultato ottenuto - nella narrativa del regime - grazie al sistema sanitario nazionale, “il migliore al mondo”, e alla paterna vigilanza del leader supremo.
Un combinato che avrebbe consentito ciò che al resto del mondo è risultato impossibile: respingere il virus alla frontiera.
In effetti, sin dalla fine di febbraio il regime aveva chiuso tutti i confini e i collegamenti ferroviari e aerei con la Cina, e figuravano inoltre, tra le misure intraprese dall’inizio all’emergenza, il posticipo dell’anno scolastico e la quarantena per oltre 2.000 cittadini e 300 stranieri.
L’Organizzazione mondiale della sanità (WHO) ha confermato alla Reuters, sulla base delle notizie ricevute settimanalmente dal ministero della salute di Pyongyang, che al 2 aprile scorso erano stati stati testati, tutti con esito negativo, 11 stranieri e 698 cittadini nord-coreani, e che 509 individui (2 soli stranieri) erano ancora in quarantena.
Numeri che lasciavano intendere, tra comprensibili riserve della comunità internazionale, il pieno controllo delle situazione, tanto che ai primi di aprile, il direttore del dipartimento delle malattie infettive della Corea del Nord, Pak Myong Su, dichiarava deciso ad Agence-France-Press (AFP) che “finora non una sola persona si è ammalata di coronavirus nel nostro paese”, grazie alle "misure preventive, come ispezioni e quarantena per tutto il personale che entra nel nostro paese, alla disinfezione delle merci e alla chiusura delle frontiere terrestri, marittime e aeree”.
Misure confermate anche da un giornalista giapponese della testata Choson Sinbo3, giornale pro-Corea del Nord residente in Giappone, che ha descritto4 approfonditamente la permanenza in quarantena nel paese per 30 giorni, confermando che per tutta la durata del periodo la temperatura gli veniva controllata tre volte al giorno, e che per quelli che l’avevano superiore ai 37,5°C scattava immediatamente l’isolamento.
Il giornalista ha anche riportato che "senza maschera non ci era permesso salire sull'autobus o entrare nei negozi o negli uffici ... erano così severi”.
A ulteriore conferma, la presenza di gente con la mascherina risulta evidente anche nelle registrazioni delle recenti apparizioni pubbliche di Kim, in alcuni casi dei quali è lui stesso a indossarla.
Segno che il livello di guardia era alto, e che il materiale di protezione individuale (MPI) giunto in dono da Russia, Cina, UNICEF e medici senza Frontiere (per citare solo quelli che hanno confermato la donazione) non era andato sprecato.
Ciò nonostante, una serie di motivi, gli osservatori e la comunità dell’intelligence non hanno mai smesso di sospettare che il regime stesse nascondendo il dilagare dell’epidemia al suo interno.
La Corea del nord è del tutto inadatta a fronteggiare una pandemia di questo tipo a causa di un sistema sanitario pubblico pressoché inesistente, e della povertà e malnutrizione diffuse.
Il suo “servizio medico gratuito socialista” è crollato a metà degli anni '90 tra il caos economico e una carestia che ha ucciso circa centinaia di nordcoreani.
Negli ultimi anni, Kim Jong-un ha costruito nuovi ospedali (foto apertura) e modernizzato alcune strutture mediche, ma la maggior parte dei benefici viene tutt’ora goduta dalla nomenclatura. A tutto vantaggio del sottobosco di prestazioni mediche private, che vede i cittadini pagare sottobanco con quel poco che hanno, come viveri e sigarette.
La paga mensile di un medico consente solo l’acquisto di 2 kg di riso, stando a quanto confermano sanitari rifugiatisi a sud, e parte importante del loro lavoro consiste nell’indicare i farmaci da reperire nel mercato clandestino.
La strumentazione disponibile è ancora quella prodotta negli anni 60, per non parlare degli equipaggiamenti di protezione individuale pressoché inesistenti.
Infine, per quanto riguarda l’altro problema del paese, povertà e malnutrizione, si consideri solo che che secondo le Nazioni Unite circa il 40% dei suoi 24 milioni di persone soffre la fame.
Dati sul contagio attualmente nella Corea del Nord ancora non se hanno, e forse mai ne disporremo con precisione, soprattutto se le notizie sulla salute di Kim saranno confermate.
Vero è che all’inizio di aprile, Kim Jung-un aveva presieduto una sessione straordinaria del Politburo, il principale organo politico del partito dei lavoratori al potere, e, con grande risalto della propaganda di regime, deciso di adottare "rigorose contromisure nazionali per controllare accuratamente l'infiltrazione del virus", pur nella prospettiva di una "scomparsa del pericolo in breve tempo”.
Il segno che la situazione stava precipitando? Chissà. Intanto, secondo i gruppi di attivisti presenti a Seoul che da tempo denunciavano l’epidemia in corso oltre confine, in Corea del Nord si continua a morire5.