I segnali di contrasti e divisioni al vertice della Russia

(di David Rossi)
28/02/22

Si rincorrono le voci sul prossimo “siluramento” del ministro degli esteri Sergey Lavrov, esperto diplomatico di epoca sovietica, patriota russo al punto di rinunciare al suo cognome armeno e sostenitore di una politica estera che per anni ha combinato cervello e muscoli.

Evidentemente, al Cremlino si respira la stessa aria degli ultimi anni di Stalin, con lo “zar” reso folle dal timore di restare vittima di un omicidio come tanti lo erano stati per sua decisione, isolatosi per i fantasmi presenti solo nella sua mente, con i suoi più intimi collaboratori solo proni a assecondare le sue manie e gli alti funzionari troppo intimoriti per correggere una linea politica sbagliata.

Eppure, non erano mancati i segnali di questo disfacimento del gruppo più patriotico e razionale dell’élite russa. Lo stesso Lavrov, parlando con Putin, lo scorso 14 febbraio aveva affermato testualmente: “Mi sembra che chance di successo della diplomazia siano lontane dall'essere esaurite. Di certo non dovrebbero continuare all'infinito. Ma in questa fase suggerirei di continuare e intensificare i negoziati”. Poi, come da noi già messo in evidenza (v.link), il 22 febbraio aveva ufficialmente affermato che “la Russia riconosce l'indipendenza delle regioni separatiste dell'Ucraina orientale entro i confini attualmente controllati dai separatisti sostenuti da Mosca”, salvo venire prontamente smentito dal presidente in persona dopo poche ore.

Un analogo episodio era avvenuto appena 24 ore prima, durante una riunione dei massimi dirigenti russi e ha fatto il giro del mondo.

“Propongo di dare ai nostri partner occidentali un’ultima opportunità…”

“Sostengo…l’annessione delle repubbliche di Donetsk e Luhansk alla Federazione russa”

“Sostengo la proposta di sostenere la loro indipendenza”

Sergey Naryshkin (foto apertura) ha cambiato tre posizioni politiche in meno di un minuto, con la mimica facciale dell’”inquisitore”, il presidente Putin, che oscillava fra il divertito, l’indispettito e il sardonico.

I giornali hanno parlato di “umiliazione” del direttore del servizio di intelligence estero della Russia da parte del padre padrone dello Stato russo. Eppure, a ben vedere, non parliamo di una persona così facile da intimidire, come è invece sembrato dai video diffusi ad arte in tutto il mondo: formato dall’Alta scuola del KGB negli stessi anni in cui Putin stesso ne fu uno studente, fra gli anni Novanta e il 2004 ha lavorato prima all’ambasciata russa a Bruxelles poi nel governo dell’oblast di San Pietroburgo in importanti organismi economici e finanziari.

Insomma, uno capace - e sicuramente incaricato - di sviluppare relazioni con personaggi autorevoli, in Russia e all’estero: non a caso, nel 2004 si trovò in posizione apicale, contemporaneamente, di Sovcomflot, Rosneft e Channel One, rispettivamente il gigante del trasporto merci marittimo, la colossale holding degli idrocarburi e la TV di stato della Federazione russa.

Sempre nel 2004, il suo anno d’oro, divenne vicepremier, durante il second mandato di Putin come presidente. Evidentemente non baciato dalla fortuna durante la parentesi della presidenza Medvedev, nel 2009 finì a presiedere una commissione storico-politica incaricata di rileggere in chiave russa la Storia del XX secolo e poi, col terzo mandato di Putin, fu incaricato di sviluppare buoni uffici fra la Russia e i partiti sovranisti e populisti europei la cui azione politica poteva fare il gioco del Cremlino.

Solo nel 2016 Putin lo risollevò, nominandolo appunto direttore dell’intelligence estera. Chi meglio di lui, con tutte le sue relazioni pazientemente costruite in tanti anni? Le sue capacità di rapportarsi con gli stranieri sono così buone che nel 2018 riuscì persino a far sospendere le sanzioni che dal 2014 lo riguardavano per una visita ufficiale negli Stati Uniti.

Ora, è stato capace di concedere il suo consenso alle iniziative più aggressive del leader russo senza sembrare… troppo consenziente.

Ultimo ma non meno importante, è il caso di Alexey Miller, il dominus di Gazprom, il colosso dell’energia da cui dipende gran parte dell’economia russa. Il suo silenzio nelle ultime settimane è assordante: eppure, Gazprom sarà colpita come e più di altri dalle sanzioni, dalla sospensione di Nord Stream 2, dall’impossibilità di reperire pezzi di ricambio e dai danneggiamenti ai gasdotti in Ucraina. Silenzio tombale.

Tre nomi non fanno una opposizione. Tre nomi non fanno una crisi del regime putiniano. Eppure, il peso specifico di questi nomi pare crescere dal momento che la “formidabile” macchina da guerra messa in piedi dal ministro della difesa Shoigu e dal capo di stato maggiore interforze Gerasimov per assecondare fedelmente i desiderata di Putin sembra stentare a imporsi in Ucraina.

Come si dice guerra di fazioni in russo?