Il governo israeliano segue con estrema apprensione l’evoluzione della guerra in Siria. Il crescente ruolo dell’Iran, sponsor del fronte pro-Assad spaventa Tel Aviv, che pensa agli equilibri del dopoguerra già dal 2015, da quando cioè l’intervento diretto russo a favore di Damasco, gettò le basi per un ribaltamento degli esiti della guerra e una vittoria dei lealisti. Allora, i colloqui fra il presidente russo Putin e il leader israeliano Netanyahu sancirono un patto: Israele dava il via libera per la presenza russa in Siria e sostanzialmente per il salvataggio di Assad; la Russia in cambio garantiva che Hezbollah non avrebbe mai posseduto armi letali per lo Stato Ebraico. L’accordo tacito fu fatto alle spalle dell’amministrazione Obama, poco amata dal governo israeliano e fu il primo passo per un ridimensionamento sensibile delle possibilità americane in Siria.
Sono passati due anni e sebbene nel quadro generale le cose siano andate come previsto, il ruolo delle milizie sciite in Siria è cresciuto notevolmente, probabilmente più di quanto Israele immaginasse. I fattori da mettere in rilievo sono essenzialmente due:
- la struttura delle forze armate siriane, fiaccate dai primi due anni di guerra civile al punto da perdere quasi metà organico a causa delle defezioni, è sostanzialmente cambiata. Un ruolo decisivo oggi lo hanno acquisito i reparti speciali e le unità più direttamente legate al governo di Assad. Su tutti valgono gli esempi delle Forze Tigre, reparti d’élite presenti su tutti i fronti decisivi, la Guardia Repubblicana e la 4a Divisione Meccanizzata, i cui quadri ufficiali sono tutti formati da sciiti alauiti. La necessità di stringere i ranghi e di guardarsi dal nemico, ha spinto Damasco a perdere parte di quella interconfessionalità che ha sempre caratterizzato gli apparati del sistema siriano. Non è una tendenza assoluta, ma è evidente che nella Siria del futuro ci sarà meno posto per chiunque sia stato in odore di tradimento;
- per far fronte alla sovrabbondanza di nemici (Free Syrian Army, ribelli islamisti, ribelli “moderati”, ex Al Qaeda, ISIS, a tratti le YPG curde, turchi e gli stessi israeliani…), i siriani nel corso degli anni hanno dovuto far ricorso massiccio a paramilitari domestici e stranieri il cui ruolo è via via cresciuto nel tempo. Tra i primi vanno menzionate tutte le milizie più direttamente legate al governo alauita (le bande degli Shabiha ad esempio, famigerate in tutto il Paese, ma anche le stesse Forze di Difesa Nazionale, le milizie del Partito Baath, il Partito Socialista Nazionalista, ecc…); tra i secondi vanno citati su tutti Hezbollah e le PMU (Unità di Mobilitazione Popolare) irachene. Entrambi sono direttamente organizzati e armati dall’Iran che supervisiona direttamente in territorio siriano e iracheno le unità in battaglia. Lo stesso coinvolgimento delle forze speciali Quds e di altri reparti iraniani in Siria del resto, non è mai stato un mistero per nessuno.
Quello che Israele non poteva prevedere appieno, era la perdita di un ruolo significativo per i gruppi ribelli ufficialmente non islamisti. Il dato è scaturito da due fattori principali:
- la creazione di aeree di de-escalation fra truppe siriane e opposizioni concordate ai colloqui di Astana del 2017 tra Russia, Turchia e Iran ha ridotto nell’arco di pochi mesi il peso delle milizie anti Assad, confinate in aree statiche. Ha permesso altresì ai siriani di concentrare le armi contro ISIS e islamisti, rapidamente messi nell’angolo dall’inizio del 2017.
- la fine dei finanziamenti ai ribelli armati decisa da Trump, al di là dell’effettiva attuazione, rappresenta un giro di boa strategico, che rilancia nella Siria del futuro alla leadership attuale. Il peso che avranno gli sciiti e il loro grande fratello Iran nella Siria di domani è tutto da vedere, ma è facile prevedere che sia molto più incisivo del passato.
La situazione sul campo parla chiaro: le truppe di Assad, dopo aver sradicato l’ISIS dal nord e dal centro del Paese (rimane solo una sacca a est di Hama, ormai circondata) sono a 70 km da Deir Ezzor. La sconfitta dello Stato Islamico è ormai certa e la sua scomparsa dal territorio siriano è questione di mesi. All’esito tanto anelato, partecipano in modo prioritario miliziani sciiti, branche delle armate irachene che in queste ore stanno inseguendo i terroristi del Califfato intorno a Mosul. Proprio dall’Iraq arriva la notizia della piena liberazione dall’ISIS di Al Tafar (ovest di Mosul) da parte delle PMU, sempre più presenti negli apparati militari di Baghdad. Se aggiungiamo che il confine siro-iracheno a est del Golan è (o sarà presto) in gran parte recuperato dal governo di Damasco grazie soprattutto all’intervento delle milizie sciite, si capisce l’inquietudine di Netanyahu.
Il premier israeliano teme che il consolidamento di basi iraniane sul suolo arabo, possa trasformarsi presto in piattaforma per il lancio di attacchi balistici letali contro lo Stato Ebraico. Il timore si sta trasformando in ossessione. Israele in soldoni, non vuole un Iran stabilmente presente in armi in Iraq e Siria. I fatti però, per il momento dicono il contrario. Tanto per capire il clima già proiettato al dopo guerra siriano, Teheran ha già fatto sapere che gli iraniani e i loro aventi causa, rimarranno i Siria finché Damasco lo vorrà. Amen.
(foto: IDF)