Parlare della vicenda di Stefano Cucchi è molto delicato, sia per la tortuosità della ricostruzione dei fatti che hanno contraddistinto la sua vicenda, sia per le implicazioni mediatiche (e, per alcuni versi, politiche) ad essa conseguenti.
È per questo motivo che mi limiterò ad accennare ad alcuni concetti generali, suddividendo la questione in due parti: quella privata e quella processuale.
Sotto il primo aspetto, ritengo che leggere tante critiche, anche feroci, rivolte ai suoi familiari, riguardanti il loro presunto o meno modo di rapportarsi o di prendersi o no cura di Stefano quando era in vita, sia ingiusto e certamente estraneo all’interesse pubblico sulla questione. Nessuno di noi può sapere le dinamiche interne alla famiglia Cucchi, come ad ogni altra in genere, gli eventuali sforzi fatti per tirarlo fuori dal mondo che poi lo ha portato alla sua fine, le reazioni dei suoi cari, magari dettate dall’esasperazione o da una precisa strategia, e via dicendo. E certamente nessuno le può giudicare.
Ciò detto, quindi, mi fermo qui e passo al punto successivo, che è quello che, in realtà, dovrebbe interessare la collettività e, quindi, il dibattito pubblico, ossia l’eventuale comportamento criminale dei Carabinieri coinvolti nei tragici fatti ed attualmente sotto processo.
Un interrogativo, questo, tornato prepotentemente in auge dopo che, nei giorni scorsi, proprio uno di essi (il vice brigadiere Francesco Tedesco) avrebbe offerto una nuova testimonianza che accuserebbe i colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro di aver pestato Cucchi.
Vorrei premettere due cose: la prima è che non entrerò nel merito della vicenda processuale, non consentendomelo né la non conoscenza specifica degli atti né il doveroso rispetto per il lavoro dei colleghi impegnati su ambo le parti a difendere gli interessi dei rispettivi assistiti per la ricerca della verità.
La seconda è che chi scrive fa parte di quella stragrande maggioranza degli italiani che ripone estrema fiducia nell’operato degli appartenenti all’Arma, come, più in generale, di chi indossi una uniforme e, con essa, dei valori e degli ideali, e per la quale (stragrande maggioranza degli italiani) anche il solo pensare che alcuni dei suoi componenti (dell’Arma) si possano essere macchiati di comportamenti contrari al loro dovere, sia una ferita profonda che solo il balsamo della giustizia potrebbe in parte lenire.
Quindi, vorrei subito sgombrare il campo da ogni dubbio: se effettivamente alcuni carabinieri dovessero aver sbagliato, dovranno subire una pena esemplare, e si dovranno accertare le responsabilità anche di chi eventualmente abbia depistato, o aiutato a depistare, le indagini, a qualsiasi livello gerarchico esso appartenga. Un atto obbligato nell’interesse ed a garanzia dei molti altri che, quotidianamente, si mantengono leali o, meglio, fedeli, al giuramento alle leggi svolto all’atto dell’arruolamento, spesso a costo della loro stessa vita, come ne sono prova gli innumerevoli esempi che, dalla sua istituzione, hanno contraddistinto i militari dell’Arma. Ed a tutela degli stessi cittadini - quindi di noi tutti - al cui servizio ed alla cui protezione i Carabinieri sono (pre)posti.
Ciò premesso, però, da giurista che spesso ha scritto su questo quotidiano anche di altre vicende di interesse nazionale (vedasi, ad esempio, quella legata al generale dei Carabinieri Tullio Del Sette, o all’ex capo di Stato maggiore della Marina, Giuseppe de Giorgi), mi sia consentito di ricordare, ancora una volta, la vigenza, nel nostro ordinamento, di un principio sancito dalla Carta Costituzionale che è quello della presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna.
Un principio molte volte dimenticato, triturato spesso dalla bufera mediatica di quell’apparato d’informazione che già nel 1787, nel corso di una seduta della Camera dei Comuni del Parlamento inglese, veniva definito dall'allora deputato del partito Whig, Edmund Burke come "quarto potere", e che ci ha abituato, soprattutto ai nostri giorni, con i suoi aspetti positivi e negativi, ad una terza verità - quella mediatica - che spesso anticipa, si sostituisce o finisce col contrastare con la coppia, potenzialmente dicotomica che, a chi studia giurisprudenza, viene insegnata al primo anno di studi: ossia quella riguardante la verità storica o fattuale (ossia quel che realmente è accaduto) e quella processuale (cioè quella che emerge nel processo: alcune volte combaciante con la prima, altre, purtroppo no: a riprova, se vogliamo, della fallibilità della giustizia umana).
Chi scrive - si badi bene - è lo zio, oltre che avvocato della famiglia, della povera Pamela Mastropietro, la diciottenne romana barbaramente uccisa, dopo essere stata probabilmente anche violentata, e poi depezzata, scuoiata, disarticolata, esanguata, lavata nella varechina, messa in due trolley ed abbandonata sul ciglio di una strada, in quel di Macerata lo scorso 30 Gennaio. Ed è colui che, in questa duplice e difficilissima veste, quando si è trovato a parlare pubblicamente della vicenda, ha sempre cercato di premettere e ricordare doverosamente, prima a sè stesso che agli altri (e non è mai stato - date le circostanze - esercizio affatto facile), la valenza del suddetto principio nei confronti dei possibili autori di questi atti che definire demoniaci sarebbe anche riduttivo.
Per tornare al caso di specie, ritengo allora altresì doveroso che non si anticipi alcun giudizio di condanna, tantomeno definitiva, prima ancora che, anche la nuova e clamorosa testimonianza non abbia superato il vaglio dibattimentale e portato (o contribuito a portare), effettivamente, alla declaratoria di colpevolezza in capo ai carabinieri accusati.
Peraltro, anche su questo punto, mi si consenta di aggiungere un tassello al quadro di insieme, per meglio aiutare nell’analisi o per evitare che continui a montare, in capo a certa parte dell’opinione pubblica, l’idea che gli attuali imputati siano anche i diretti responsabili della morte di Cucchi: la consulenza medico-legale disposta a suo tempo dal gip in sede di incidente probatorio (come meglio riportato nell’articolo a firma di Elena Ricci (vedi link), infatti, sembra escludere qualsiasi nesso causale tra la morte e le lesioni subite dal ragazzo. Quindi, a voler tutto concedere - ed a meno di ulteriori colpi di scena, intendiamoci - i carabinieri in questione potrebbero ritenersi colpevoli delle lesioni subite da Cucchi, ma non della sua morte. Non che questo cambierebbe qualcosa circa il giudizio di gravità (morale e disciplinare) riguardante il loro comportamento, ma a livello giuridico c’è differenza tra l’essere ritenuti colpevoli di lesioni e di omicidio.
Ma, anche qui, non credo sia opportuno né possibile anticipare nulla, né in un senso, né in un altro, stante le premesse di cui sopra: quel che è certo, però, e che credo occorra ribadire, è che se costoro (i carabinieri accusati) hanno sbagliato, dovranno subire una pena esemplare, ma fino a che non si sia completato l’iter processuale, sarebbe opportuno che, come per Oseghale si debba - nonostante anche diverse evidenze - aspettare l’esito giudiziale per dichiararlo anche formalmente colpevole (magari insieme ad altri, chissà), medesimo ragionamento debba farsi per i suddetti che, fino a prova contraria, sono anch’essi cittadini e quindi, come tutti, meritevoli delle opportune garanzie.
Piaccia o no, vige questo principio, che non può e non deve farsi valere a fasi alterne, a meno che non si decida di rimodularlo, modificarlo o eliminarlo: ma ciò deve avvenire solo nelle forme e nelle sedi opportune previste in uno Stato democratico (e di diritto) come il nostro, ossia - riferendomi a queste ultime - nelle aule parlamentari, e non già nelle piazze - mediatiche, virtuali o fisiche - dove magari si inciti pubblicamente alla disobbedienza civile - come pure è capitato recentemente - allorquando una legge non sia ritenuta legittima o confacente al proprio sentire.
Rispettare dei principi o delle leggi e, magari, cercare di cambiarle (quando esse, magari, non rispecchino più la volontà della maggioranza dei consociati) nei modi anzidetti, non vuol dire essere come i nazisti (come qualcuno sostiene), ma, al contrario, cittadini consapevoli di vivere in una società dove l’uomo, che è “animale sociale”, ha bisogno di regole per vivere l’uno insieme all’altro, perché “la dove c'è una società (civile), lì vi è il diritto”.
Avv. Marco Valerio Verni