Nella serata di ieri il giudice per le indagini preliminari di Agrigento ha emanato la sua ordinanza sulla convalida di arresto e richiesta di misura cautelare avanzata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale della medesima città nei confronti della comandante della Sea Watch 3, Carola Rackete, indagata per i noti fatti di questi giorni, per i reati di Resistenza o violenza contro nave da guerra (art. 1100 cod. nav.) e di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.).
Nel merito, il magistrato in questione, ha, in buona sostanza, non solo non convalidato l’arresto dell’indagata ma, addirittura, ha dichiarato:
1) non sussistere il reato di cui all’art. 1100 del codice della navigazione dal momento che, secondo lui, una unità della Guardia di Finanza che operi in acque territoriali non possa considerarsi una nave da guerra, secondo una interpretazione avanzata, a suo dire, dalla Corte Costituzionale, con una sentenza del 2000;
2) essere scriminato quello di cui all’art. 337 del codice penale, perché compiuto nell’adempimento di un dovere, ossia quello derivante dal rispetto dei trattati internazionali riguardanti il soccorso in mare dei naufraghi.
Orbene, se i provvedimenti giurisdizionali, come si dice, debbano essere rispettati, non vuol dire, però, che ad essi non si possano muovere delle censure, pur nella doverosa premessa - ovviamente - di ragionare in assenza di tutto l’incartamento processuale, ma basandosi solo sul provvedimento richiamato, pubblicato da alcuni organi di stampa.
Quanto al primo punto, a parere del sottoscritto, il Gip di Agrigento ha mal interpretato la sentenza da esso richiamata (la n. 35 del 2000), che peraltro interveniva sulla richiesta di referendum popolare inerente il riordino proprio della Guardia di Finanza.
Scrive infatti il magistrato agrigentino che “Invero, per condivisibile opzione ermeneutica del Giudice delle Leggi (v. Corte Cost., sent. N. 35/2000), le unità navali della Guardia di Finanza sono considerate navi da guerra solo “quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia una autorità consolare”.
Ebbene, andando a leggere bene, e per intero, il testo della citata sentenza, in essa, sembra affermarsi altro: ossia che “le unità navali in dotazione della Guardia di finanza sono qualificate navi militari, iscritte in ruoli speciali del naviglio militare dello Stato (…), battono 'bandiera da guerra' e sono assimilate a quelle della Marina militare (artt. 63 e 156 del r.d. 6 novembre 1930, n. 1643 - Approvazione del nuovo regolamento di servizio per la Regia Guardia di finanza -); sono quindi considerate navi militari agli effetti della legge penale militare (art. 11 del codice penale militare di pace); quando operano fuori delle acque territoriali ovvero in porti esteri ove non vi sia un'autorità consolare esercitano le funzioni di polizia proprie delle "navi da guerra" (art. 200 del codice della navigazione) e nei loro confronti sono applicabili gli artt. 1099 e 1100 del codice della navigazione (rifiuto di obbedienza o resistenza e violenza a nave da guerra), richiamati dagli artt. 5 e 6 della legge 13 dicembre 1956, n. 1409 (Norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi)”.
In sintesi, le unità navali della Guardia di Finanza sono sempre considerate come navi militari, battono bandiera da guerra e sono assimiliate a quelle della Marina Militare. In aggiunta (ma è un’aggiunta, appunto), quando operano fuori dalle acque territoriali ovvero in porti esteri dove non vi sia una autorità consolare, esercitano le funzioni di polizia proprie delle “navi da guerra”, con tutto quello che ne consegue.
Questo non vuol dire, dunque, come erroneamente supposto, che, al contrario, quando esse si trovino in acque territoriali, non siano, invece, da considerarsi “non da guerra”, soprattutto al ricorrere di certi presupposti.
Per non annoiare troppo, basti ricordare, tra tante, una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 31403, sez. III, del 14 giugno 2006, secondo cui, anche ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 1100 del Cod. nav., è indubbia (il riferimento è alla fattispecie lì trattata, ma è chiaramente estensibile a casi simili), “la qualifica di nave da guerra attribuita ad una motovedetta, non solo perché essa era nell’esercizio di funzioni di polizia marittima, e risultava comandata ed equipaggiata da personale militare, ma soprattutto perché è lo stesso legislatore che indirettamente iscrive il naviglio della Guardia di Finanza in questa categoria, quando nella L. 13 dicembre 1956, n. 1409, art. 6, (norme per la vigilanza marittima ai fini della repressione del contrabbando dei tabacchi) punisce gli atti di resistenza o di violenza contro tale naviglio con le stesse pene stabilite dall’art. 1100 c.n., per la resistenza e violenza contro una nave da guerra”.
Nella stessa sentenza citata, peraltro, gli stessi giudici hanno ricordato che “Anche ai fini dell’applicazione dell’art. 1099 c.n. (rifiuto di obbedienza a nave da guerra), questa Corte ha già avuto modo di affermare che una motovedetta armata della Guardia di Finanza, in servizio di polizia marittima, deve essere considerata nave da guerra” (Cass. Sez. 3^, n. 9978 del 30.6.1987, Morleo, rv. 176694).
Quanto al secondo punto, invece, occorre premettere, per una maggior completezza di ragionamento che, in una dinamica basata sul rispetto delle regole, queste ultime non si dovrebbero far valere con atti di forza, al limite, quasi, di una giustizia privata, ma nelle sedi opportune che, nel mondo civile, è costituto dai tribunali, nazionali o internazionali che siano.
Per semplificare, ad ognuno di noi credo sia stato insegnato che, se vantassimo un diritto, ed esso ci venisse negato, è alle autorità giurisdizionali che dovremmo rivolgerci, evitando di agire per conto proprio.
Nel caso di specie, una organizzazione non governativa ha deciso, invece, di sfidare uno Stato, nel nome - secondo i responsabili - del rispetto del diritto del mare e di quello internazionale.
Ebbene, quand’anche lo Stato italiano, in questo caso, avesse violato le richiamate norme, questo non avrebbe dovuto giustificare, in automatico, quanto ne è poi conseguito, in termini di azioni, da parte della comandante della Sea Watch: ossia entrare forzosamente in un porto di quello stesso Stato sopra richiamato che, comunque, volenti o nolenti (al netto di quelle che poi potrebbero essere le conseguenze) rimane sovrano, nonostante gli obblighi internazionali assunti ed asseritamente violati.
Diversamente, la suddetta (comandante) avrebbe dovuto raggiungere qualche altro porto (d’altronde, lo avrebbe potuto benissimo fare, visti i numerosissimi giorni di navigazione che la hanno comunque vista impegnata in mare) e poi, una volta trovata ospitalità in altra destinazione, attivarsi nelle opportune sedi giurisdizionali per denunciare l’Italia per tutte le violazioni ritenute commesse.
Sul punto, vorrei appena ricordare che la nave in questione batte(va) bandiera olandese e che, dunque, era come se i migranti fossero stati accolti in quel paese, con tutte le conseguenze del caso. Anche questo è un concetto che - evidentemente scomodo per i fautori dell’immigrazione incontrollata a carico dell’Italia - viene sovente dimenticato, sebbene vada certamente meglio armonizzato e specificato nella normativa di riferimento (e chissà che - de iure condendo - non possa essere fatto, in futuro: allora sì, sarebbe interessante vedere se ci sarebbe ancora la corsa al “salvataggio” da parte di navi battenti bandiera francese, tedesca, olandese e via dicendo).
Inoltre - ed è questo l’altro punctum dolens della vicenda - non vi era nessun motivo di urgenza o necessità, come pure è stato scritto da qualcuno, anche come giustificazione dell’adempimento del dovere, che potesse giustificare una simile azione che - lo si ripete -, oltre a violare delle precise disposizioni di uno Stato sovrano, sembra aver messo in pericolo la vita di alcuni finanzieri.
Infatti, coloro che erano realmente bisognosi di cure erano già stati fatti sbarcare, e sul punto, si erano espressi già due tribunali, circostanza che, appena accennata nel provvedimento del Gip di Agrigento (ma non poi considerato nelle sue conseguenze) viene spesso sottaciuta: quello amministrativo del Lazio (T.A.R. Lazio) e, se ciò non fosse bastato, la stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Rackete and Others v. Italy, application no. 32969/19), che, dopo aver rivolto - lo ricordo - delle precise domande a tutte le parti in causa1, ha negato ai ricorrenti (ossia la stessa comandante dell’imbarcazione ed alcuni migranti) le interim measures, non ravvisando, evidentemente, l’esistenza di un imminente rischio di danno irreparabile, in presenza del quale, viceversa, sarebbero state disposte.
Quello della Sea Wacth - occorre sottolinearlo - non rappresenta, peraltro, un episodio sporadico di soccorso a dei naufraghi (poi, si potrebbe pure discutere sulla nozione di naufrago, rapportata al caso in questione), ma l’ennesimo di un sistematico e ripetuto agire nel tempo che non ha nulla a che vedere con lo spirito originario del diritto del mare né del Regolamento di Dublino che, chiaramente, non era certo stato creato per affrontare la trasmigrazione di interi popoli. E che, politicamente, doveva comunque essere sorretto da una condivisione di oneri e di responsabilità, a livello europeo, che, invece, non sembrano, nei fatti, aver avuto seguito.
Con buona pace di chi, su questi traffici, ci lucra e, per ciò stesso, ne continua a promuovere le ondate: prevedibili, a tal riguardo, le conseguenze che potranno aversi, proprio in termini di una massiccia ripresa dei viaggi della speranza verso l’Italia, nella convinzione, anche da parte delle organizzazioni non governative, di poter tranquillamente entrare nei porti del nostro Paese in totale autonomia ed in spregio alle volontà politiche interne.
Chissà cosa, nel frattempo, avranno pensato e penseranno i finanzieri coinvolti nella vicenda, e, con loro, tutto il personale quotidianamente impiegato nelle operazioni di pattugliamento delle nostre coste e di search and rescue.
La giustizia, si dice, è amministrata nel nome del popolo italiano: siamo davvero sicuri che sia ancora veramente cosi?
1 The questions put to the Government concerned the number of persons who had been disembarkedfrom the boat, their possible vulnerability, the measures envisaged by the Government, and the current situation on board the ship. The questions put to the applicants concerned the physical and psychological conditions of the applicants on board the ship and their possible vulnerability.
Foto: Sea Watch (in fondo la locandina della petizione internazionale - nella versione tedesca e inglese ma non italiana... - lanciata dall'Organizzazione per la liberazione del proprio comandante arrestato da un Paese come l'Italia "a member of the EU, openly opposed human rights and made entering the port a punishable offence") / web