La presunta responsabilità italiana per i bombardamenti in Yemen: il concetto di “valutazione prudente della prova”

20/05/21

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, con l’ordinanza pronunciata il 22 febbraio 2021 ha respinto la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero nel procedimento contro ignoti relativo alle procedure di rilascio, a favore della RWM Italia S.p.A., delle autorizzazioni per l’esportazione di armamenti verso l’Arabia Saudita.

Il G.i.p. ha in questo modo disposto lo svolgimento delle indagini suppletive previa iscrizione nel registro degli indagati dei direttori generali pro tempore dell’Unità per le Autorizzazioni dei Materiali di Armamento (UAMA) e degli amministratori delegati della RWM Italia S.p.A. dal 2015 fino alla data dell’ultima autorizzazione all’esportazione.

Questa decisione ha il sapore di costituire una occasione inedita (o permettetemi anche anomala) per la magistratura italiana al fine di accertare la responsabilità penale di soggetti interessati a diversi livelli nell’esportazione di armamenti verso quei paesi, quali l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, coinvolti almeno dal 2015 nel conflitto armato in Yemen e nella contestuale commissione di potenziali crimini internazionali.

Il Giudice romano ha eccepito l’incompletezza delle indagini svolte dal Pubblico Ministero, con la necessità di procedere all’ulteriore svolgimento di attività investigativa suppletiva previa iscrizione nel registro degli indagati dei direttori generali pro tempore di UAMA e dei vertici apicali delegati pro tempore della RWM Italia S.p.A. (sul punto si segnala l’interessante articolo di Maria Crippa in Sistema Penale, per un’analisi più approfondita).

Sebbene dall’ordinanza in commento non emerga (ancora) una netta distinzione tra le posizioni degli indagati, le indagini suppletive disposte dalla giudice sono rivolte alla acquisizione della documentazione necessaria proprio all’accertamento di tali fattispecie.

Giova richiamare alcune argomentazioni circa la configurazione del reato di abuso d’ufficio, così come riformato dalla già richiamata legge n. 120/2020 e richiamato nella parte motiva del Giudice romano.

Come è noto, l’art. 23 del D.L. 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. Decreto semplificazioni), convertito dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, ha riformulato la fattispecie di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., sostituendo le parole “norme di legge o di regolamento” con l’espressione “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” (è invece rimasta intatta la previsione relativa all’omessa astensione in caso di conflitto di interesse, che non viene in rilievo in questa sede).

La riforma novellistica ha, in tal modo, ristretto sensibilmente l’ambito di operatività della fattispecie incriminatrice in parola, determinando una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi (prima dell’entrata in vigore della legge stessa) mediante violazione di norme regolamentari e di leggi generali e astratte dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche o che comunque concedano all’agente margini di apprezzamento discrezionale.

Il legislatore ha dunque inteso ancorare più saldamente la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 232 c.p. – norma di chiusura del sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione – allo stretto principio di legalità, sub specie di determinatezza, onde arginare il potere d’intervento della legge penale sull’azione amministrativa.

In particolare, l’obiettivo principale sottinteso a tale ultimo intervento riformatore è stato quello di espungere definitivamente dall’area del penalmente rilevante fattispecie concrete variamente riconducibili alla figura dell’eccesso di potere dei pubblici funzionari.

Una delle prime pronunce di legittimità intervenute successivamente alla riforma ha statuito che in luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione “di norme di legge o di regolamento”, si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali. Di qui il lineare corollario della limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito – effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto. […] La nuova disposizione normativa ha dunque un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente definizione della modalità della condotta punibile, sottraendo al giudice penale tanto l’apprezzamento dell'inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione “mediata” di norme di legge interposte), quanto il sindacato del mero “cattivo uso” – la violazione dei limiti interni nelle modalità di esercizio – della discrezionalità amministrativa (Cass. pen., Sez. VI, 9 dicembre 2020, n. 442/2021).

Si può aprire in questo modo una delicata deriva penal-preventiva con le ulteriori indagini nei confronti dei funzionari e dei dirigenti coinvolti nel rappresentare un miraggio di possibilità di ottenere giustizia a favore delle vittime del conflitto in Yemen.

Non può che venire alla mente la decisione presa lo scorso 30 marzo 2021 dalla Corte Federale di Giustizia tedesca che ha confermato la sentenza di condanna, emessa nel febbraio 2019 dalla Corte Regionale di Stoccarda, nei confronti di due ex impiegati della Heckler & Koch (H&K) per l’esportazione illegale di armi verso il Messico.

Giova ricordare che la decisione già presa lo scorso 20 gennaio 2021 dal Governo italiano nel revocare le autorizzazioni alle esportazioni di armamenti nei confronti dei Paesi Arabi (Emirati e Arabia Saudita), potrebbe generare un segnale anticipatorio di avversità nell’opinione pubblica sui fatti di questa vicenda.

Da ultimo, un altro passaggio motivazionale del GIP di Roma evidenzia la circostanza delle recenti modifiche introdotte dal “Decreto semplificazioni” e dal divieto di esportazione imposto dalla L. 185/1990 quale barometro di condotta.

Mi preme, però, precisare che l’illustrazione della L. 185/90 deve essere preceduta dal richiamo di una precisazione appositamente esplicitata nel corso dell’esame dell’art. 1, 1° comma della L. 110/75, e, cioè, che, a chiaro tenore di tale norma, le armi da guerra sono quelle che, in conseguenza della loro spiccata potenzialità offensiva (rectius: spiccata capacità lesiva e distruttiva), vengono destinate all’armamento degli Enti Militari; il che equivale a dire che esse fanno parte del loro armamento, espressione con la quale si indica il complessivo equipaggiamento di cui tali Enti sono dotati, dal quale le armi costituiscono solo una parte.

Ma potendo essere la produzione interna dei materiali d’armamento, oltre che finalizzata alla difesa dello Stato, destinabile anche al commercio con l’estero, da attuarsi, tuttavia, per intuibili ragioni, in un quadro di condivisa politica internazionale, con la L. 185/90 si è provveduto a disciplinare rigorosamente l’esportazione, l’importazione ed il transito di detti materiali. Ma tale eventualità, postulava anzitutto una loro concreta individuazione. È stato sempre necessario stabilire concretamente quali siano stati tra i materiali prodotti dalle imprese di settore, quelli destinati agli Enti Militari del nostro Stato per il loro armamento ai fini dell’impiego difensivo bellico, da sottoporre ai rigidi controlli stabiliti dalla L. 185/90 qualora avessero dovuto formare oggetto anche di produzione per l’estero. Da qui sostenere di ottenere un senso di giustizia per le vittime dello Yemen e intravedere una “longa manus” operativa come nesso di causa nell’esportazione di armamenti il passo è molto delicato.

Da ultimo, spetterà ora al PM rivalutare attentamente la situazione, ma con un percorso tracciato dal GIP in una vicenda che coinvolgerà plurimi aspetti di estrema delicatezza non solo a livello nazionale, auspicando che si rimanga nella valutazione della prova e quelle concise valutazioni dei fatti all’interno del tracciato della razionalità e della ragionevolezza.

Avv. Antonio Bana

Centro Studi Diritto Europeo sulle Armi