“Quasi due anni! Abbiamo perso tutti i nostri averi. Quanto tempo dobbiamo aspettare? Noi, colleghi delle forze internazionali, della Nato e dell'Italia, vi chiediamo di rilasciare i nostri visti il prima possibile. Da più di diciotto mesi aspettiamo un visto italiano nella Repubblica islamica dell'Iran”.
Sono queste alcune delle frasi scritte sui cartelli e striscioni, in italiano e in persiano, portate da una cinquantina di afgani che si dichiarano collaboratori del contingente italiano di Herat, durante una manifestazione pacifica che si è tenuta nel parco iraniano di Valayat, poco distante dall'ambasciata d'Italia a Teheran, lunedì scorso 21 agosto.
Gli afgani con le loro mogli e i bambini hanno cercato di portare l'attenzione sulla insostenibile situazione che stanno vivendo, chi da oltre un anno, chi quasi due, da quei drammatici giorni dell'agosto 2021 che hanno visto la precipitosa e caotica evacuazione delle forze Nato dall'Afghanistan.
Nonostante gli sforzi dei contingenti alleati per portare in salvo quanti più collaboratori possibile – l'Italia ne ha trasportati in Italia ben 4.890 – in diversi sono restati a terra pur essendo in lista per essere evacuati. Il caos e l'assembramento inverosimile che si erano venuti a creare nell'aeroporto internazionale di Kabul, non hanno permesso loro di raggiungere i cancelli da dove partivano i voli della salvezza, cessati dopo l'attentato suicida del 27 agosto che ha provocato l'uccisione di quasi duecento persone tra la folla.
In circa duemila si sono mossi verso l'Iran, tanti soprattutto su consiglio del personale del Ministero della Difesa, che li ha chiamati personalmente al telefono. Da Teheran l'Italia ha continuato a evacuarli sia pur alla spicciolata. Ma tanti sono ancora là.
Come affermato dal ministro Lorenzo Guerini alla fine del 2021, “L’evacuazione della scorsa estate dei cittadini afghani da Kabul è stata un’operazione molto complessa, ma l’impegno incessante e silenzioso delle Forze Armate italiane è proseguito anche in questi mesi”.
Ma dopo due anni, tanti collaboratori sono in attesa di fare l'intervista con l'ambasciata italiana, il primo passo per l'agognato volo per Roma. Il drappello che ha manifestato lunedì scorso è solo una piccola rappresentanza che tenta di riportare l'attenzione sulla loro situazione.
Tante famiglie hanno venduto tutti i loro averi e hanno speso tutto quello che avevano per mantenersi in attesa a Teheran, stipate in una stanza affittata in città o in piccoli alberghi, senza poter avere permessi per lavorare, senza poter mandare i bambini a scuola perché non residenti, in possesso del solo visto turistico che devono rinnovare ogni volta con costi pesanti.
“Siamo privati dell'istruzione. Ti chiediamo di determinare il nostro destino. Per quanto tempo saremo senza destino?” recitano le scritte portate da alcuni ragazzini tra cui una bimbetta che avrà sì e no tre anni, dall'espressione compunta e seria, consapevole di fare qualcosa di importante. E ancora, “Chiediamo la vostra attenzione per il futuro dei nostri figli. Vogliamo i nostri diritti umani” sostengono altri cartelli portati da alcune donne.
Quasi due anni di attesa snervante, senza nessuna risposta da Roma, nonostante gli afgani continuino a spedire i loro documenti ai Ministeri della Difesa e degli Esteri.
“La polizia iraniana non ha permesso il raduno davanti l'ambasciata, ci siamo dovuti radunare il questo parco per protestare” spiega M. Rahimi, che si fa portavoce di tutti. “Abbiamo chiesto di parlare con qualcuno dell'ambasciata, di darci una risposta a questa situazione, ma ci hanno solo detto che se le nostre pratiche sono state evase a Roma, ci avrebbero chiamati, altrimenti non potevano, anche perché siamo in tanti. Sono veramente stanco, non ne posso più, non ho più il mio lavoro, non ho più mezzi. In questi due anni ho cercato di attirare l'attenzione sul mio caso, in ogni modo, inutilmente. Qualcuno, dall'Italia, può darci una risposta?”.