L’ultimo scampolo di agosto ha portato un gelido soffio novembrino sull’incandescente scena politica internazionale, un memento di quel che il palcoscenico americano riuscirà a mettere sotto la luce dei riflettori per le elezioni presidenziali. Da ambedue gli schieramenti non sono mancati i colpi di scena, non da ultimo l’appoggio fornito a The Donald dall’outsider Robert Kennedy Jr, preceduto dalla morte - politica - annunciata del presidente in carica, di fatto giubilato dal suo stesso partito, intimorito dalla sconcertante prestazione da lui fornita durante l’ultimo confronto televisivo. Era cambiato qualcosa dall’inizio della campagna elettorale? Sicuramente non le capacità presidenziali, tutt’al più destinate a declinare ulteriormente per il loro corso fisiologico; la fronda interna è quella che più sensibilmente ha eroso il consenso per un ottuagenario stanco e certamente non più spendibile per una carica che, peraltro, nel corso della storia, ha riservato sanguinosi coup de theatre.
È proprio il nome Kennedy a far rammentare come l’attentato a JFK, vittima di uno dei più famosi omicidi di stato in diretta tv, sia rimasto uno dei misteri insoluti del secolo scorso.
Se il tutto si fosse svolto nella curia di Pompeo, avremmo potuto immaginare uno stuolo di maggiorenti togati contornanti un anziano canuto, ma certo non così stolido da non presagire l’arrivo delle pugnalate, risparmiate soltanto dalla promessa di uno “spontaneo” ed enfatico appoggio alla candidata imposta sulla scena dalla dirigenza dem, la vicepresidente Harris, mediaticamente più spendibile anche perchè unica disponibile, ma politicamente un rebus, sia per capacità poco evidenti, sia per la performance poco esaltante del 2020.
Alla Harris fa da contraltare dietro le quinte Tulsi Gabbard, ex democratica chiamata da Trump quale consulente, una politica quanto mai decisa e netta nelle critiche verso il suo partito d’origine. Insomma, una situazione quanto mai confusa che, stando alle ultime esternazioni della Harris, sembrerebbe preludere verso forme inedite di socialismo che, in ambito statunitense, non hanno precedenti e per le quali sembra difficile azzardare previsioni.
Del resto la politica americana ha abituato all’attrazione degli estremi, non risparmiando nulla ad una fantasia sempre più spesso superata dalla realtà, anche nella sceneggiatura di House of Cards. Neodem, neocon, l’avvicinamento di Kennedy jr alle frange repubblicane più estreme segnalano l’inasprimento di una lotta di potere che sta logorando attori e sistema politico.
Non si può non pensare alla fine o, almeno, al forte declino dell’eccezionalismo americano, un tempo secondo Washington una luce destinata a rischiarare i destini mondiali, ed ora in cerca di un motivo d’essere e di esprimersi, visti sia gli eventi del Campidoglio del 2021, sia la confusione ingenerata dalla più recente gestione dem degli avvenimenti.
Quel che è certo è che gli eventi vanno decontestualizzati per provare a giungere a concettualizzazioni più generali che toccano quella che è l’essenza dell’elettorato, ovvero: chi sono davvero oggi i votanti americani, qual è lo spirito che li anima. E quale sarà la classe dirigente che, volente o nolente, contribuirà a determinare le sorti del pianeta, portando con sé la valigetta del dottor Stranamore, anche perchè la retorica che ha di volta in volta ispirato l’eccezionalismo, dalla guerra fredda all’esportazione del modello politico occidentale, ha bisogno di una nuova spinta ora ostacolata da criticità commerciali internazionali non sottovalutabili e da una situazione più generale che richiede maggiore cooperazione. Insomma, un ridimensionamento repentino di un fenomeno come quello eccezionalista, pur non facilmente gestibile ed accettabile, condurrebbe ad una drastica revisione del multilateralismo e ad una riconsiderazione, sul medio lungo periodo, della rilevanza della leadership e della sua conduzione politica. Laddove Trump dovesse far breccia, potrebbero essere proprio gli americani a desiderare di non essere più “politicamente eccezionali” per l’elevato prezzo da dover pagare e per gli esigui dividendi destinati ai ceti meno abbienti.
Le “cinture” in America sono diverse, da quella del “cotton” alla “rust”, che meno poeticamente richiama ad una realtà produttiva ed operaia in crisi, descritta senza particolari voli pindarici da J.D. Vance, portavoce di una società in sofferenza e naturalmente portata, quando in passato impiegata prevalentemente nel metalmeccanico, verso istanze democratiche tuttavia ora più distanti dalla working class. Vance, non a caso candidato per la vice presidenza repubblicana, canta un’elegia politica e sociale poeticamente dura, scomoda e dà la voce a personaggi reali tra i quali non possono non scorgersi i volti di americani che tra non molto dovranno recarsi a votare, e che sono interpreti di una realtà più complessa e difficile di quanto non venga riportata dal mainstream.
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