I cannoni di Vivaro

(di Nicolò Manca)
23/03/21

Nella valanga di sfottò che hanno imperversato sui social dopo il grave errore commesso nel poligono friulano dall’ignoto cannoniere del Centauro di “Genova Cavalleria” è mancato un titolo: “La volpe del deserto e il Centauro del Cellina-Meduna”.

Anche se pesante la satira è stata per lo più divertente e spiritosa, ma del tutto fuori luogo quando è stata tirata in campo la lapide di El Alamein: “Mancò la fortuna non il valore”. Chi ha avuto l’idea del sacrilego accostamento avrebbe dovuto chiedersi cosa avrebbe pensato il figlio o il nipote di un caduto ad El Elamein.

Il richiamo alla Volpe del deserto offre comunque lo spunto per ricordare uno dei principi cui Rommel improntava la sua azione di comando in operazioni: “la miglior difesa è l’attacco”, attacco che scatenava in tempi rapidi sorprendendo ancor più il nemico. Stabilito un doveroso rapporto tra il nemico anglo-americano che Rommel aveva di fronte e l’amica (ma non troppo) opinione pubblica fronteggiata dall’esercito italiano nel “caso Vivaro”, è indubbio che al motto di Rommel il vertice militare nazionale ha preferito il più modesto slogan “la miglior difesa è il defilamento”.

A dar peso ai social pare tuttavia che questa scelta non abbia funzionato, tant’è che la satira è scivolata sempre più nel sarcasmo, cosa che ha pesato e pesa su tutti gli uomini in divisa. In realtà non una voce alla Rommel ha tuonato per “difendersi attaccando” e sbattere in faccia all’opinione pubblica il concetto che quel che è successo a Vivaro è grave, e anche se non è accaduto quel che di tragico poteva accadere, chi ha sbagliato, e non solo il cannoniere, pagherà un prezzo molto salato.

Ciò detto a nessuno è consentito di ironizzare sull’immagine di Genova Cavalleria e del soldato italiano. Invece non si è levata una voce che urlasse che la figura del soldato è sacra e va rispettata sempre, e non lisciata e vezzeggiata solo quando recita il ruolo di braccio armato (si fa per dire) della protezione civile come operatore sanitario, custode di migranti, controllore di discariche, manovale generico o altro.

Correva l’anno 1989 quando in quel di Pinerolo in un altro gruppo di cavalleria, il “Nizza”, venne alla luce un fatto che gettava discredito sul reparto: un ufficiale aveva barato vergognosamente sul reale livello di efficienza dei mezzi del gruppo. Non era accaduto alcun incidente ma la disonestà professionale dell’ufficiale gettava ombre sulla reale operatività del reparto. Il comandante della brigata, uomo irruento e nemico delle mezze misure, si precipitò a Pinerolo e chiese la testa del responsabile, ma il comandante del gruppo, il tenente colonnello Stefano Angioni, che peraltro aveva assunto il comando del reparto da pochi giorni, lo stoppò con queste parole in seguito immortalate da qualcuno in un libro di memorie: “Comandante, il responsabile di tutto ciò che accade nel mio gruppo, nel bene e nel male, sono io. Perciò rivendico il diritto di pagare di persona e di decidere come punire il mio ufficiale, nei confronti del quale sono colpevole per non aver esercitato un’adeguata azione di controllo”.

Stefano Angioni aveva ben chiaro cosa significasse per un comandante la ”responsabilità riflessa” e sapeva anche che subire una punizione nel corso del periodo di comando comportava per un tenente colonnello concludere la carriera in quel grado. Solo uomini di altri tempi? No. Anche oggi c’è chi nella forza armata soffre quando prende atto di ciò che non va, ed è singolare che a soffrire sia un semplice caporal maggiore che traduce la sua sofferenza nel grido di dolore conclusivo di una sua riflessione: “questo non è più il mio Esercito”.

Dal mio diario personale. 1997: vengo impiegato nella missione SFOR in Bosnia con una compagnia del 151° della Sassari aggregata al 3° reggimento alpini inquadrato nella brigata multinazionale nord comandata dal generale Novelli. Noi sassarini sentiamo il peso di dover eguagliare l’operato svolto l’anno precedente da un’altra compagnia aggregata alla Folgore. Io, primo caporal maggiore di 24 anni, al comando di 12 VFB con un anno di servizio, vengo mandato in un paese, Pale, per garantire la sicurezza di una delegazione dell’OSCE e il regolare svolgimento delle elezioni. Nella notte fazioni di serbo bosniaci danno fuoco alle polveri fomentando disordini che sfociano in scontri a fuoco. Alla chiusura dei seggi, prese in consegna le urne di cui i serbi vogliono impadronirsi e attorniato dai funzionari Ocse in preda al panico, con i miei 12 uomini intraprendo la strada per raggiungere il centro di raccolta delle urne dove ci attende la polizia bosniaca. L’interminabile viaggio si svolge tra continue raffiche di AK47 sparate da auto impazzite che ci affiancano per tutto il tragitto. Raggiunto il centro di raccolta, a forza di colpi di calcio di AR 70/90 e rimediando qualche graffio, riusciamo a superare lo sbarramento di persone che vogliono impedire la consegna delle urne. L’indomani mattina, dopo 30 ore di ininterrotto servizio, gli alpini ci danno il cambio mentre le tv riferiscono del trionfo della democrazia, con immagini di molti cappelli alpini sullo sfondo!!! A noi poco importa e facciamo rientro alle nostre Tito Barraks a Sarajevo. Nel pomeriggio il generale Novelli mi stringe la mano, mi dà una pacca sulla spalla e mi dice “Bravo!”. Non lo do a vedere ma sono il fante più felice della terra”.

Comandante, oggi lei capirà cosa provo nel leggere sui social di un encomio solenne attribuito da un generale di corpo d’armata a un caporal maggiore degli alpini donna che ha dimostrato “doti preclare, straordinarie, cristalline, encomiabili, esemplari , incisive , pregevoli, lungimiranti, meticolose e fulgide… nella gestione delle pratiche afferenti… alla coordinazione e contabilizzazione degli straordinari del personale militare del Commissariato Generale dei Sacrari”. Per me è stata una tortura anche l’interminabile sarcasmo sui social a seguito dell’incidente di Nizza Cavalleria; il colpo di grazia l’ho ricevuto poi quando ho visto Crozza, il noto comico, ridicolizzare un generale di corpo d’armata degli alpini. Mi perdoni per questo sfogo ma io in questo esercito non mi riconosco più. Sto assistendo giorno per giorno al suo lento declino. Ci vogliono far apparire carini e coccolosi sostituendoci alla protezione civile, facendo venir meno la nostra natura. Non ho più esempi da seguire né Comandanti da emulare. Abbiamo voluto un Esercito 2.0 con signorine con le unghie sempre fatte e ragazzetti depilati!!! Io che ancora mi commuovo alla cerimonia dell’ammaina bandiera e mi emoziono,alla soglia dei miei 50 anni, leggendo e rileggendo “Se fu amor di Patria”, io in questo esercito non mi riconosco più, e sebbene ancora oggi mi sforzi di “edificarlo”… questo non è più il mio Esercito.

La verità è che chi la pensa come questo soldato e non dimostra di appartenere a una precisa corrente, è ignorato e messo da parte da un sistema che privilegia chi si profonde in inchini e salamelecchi verso la classe politica, ma poi non batte ciglio quando viene deriso e sbeffeggiato allorché, smesse le vesti della protezione civile, incappa in un incidente modello Vivaro.

Foto: Esercito Italiano