Maria Luisa Suprani Querzoli: Luigi Capello - profilo di un generale italiano

Maria Luisa Suprani Querzoli
Ed. Tralerighe, Lucca 2022
Pag. 198

Dopo aver approfondito la figura di Francesco Baracca l’autrice, si dedica, in questo suo nuovo saggio, al generale Luigi Capello, analizzando approfonditamente il suo pensiero attraverso i suoi scritti, con l’obiettivo di “sollevare il velo dell’oblio (non prima di averne indagato le cause) che si è depositato sulla sua figura imponente.” Ma, mentre per il primo, la memoria si è mantenuta viva nel corso degli anni, il secondo, dopo Caporetto, fu dato in pasto, dai politici del tempo, a una commissione d’inchiesta, compiendo, così, “un rito più sacrificale che di giustizia, volto soprattutto a pacificare gli animi di una Nazione duramente provata,” con l’intento, non tanto celato, “di trovare i capri espiatori eccellenti sui quali far gravare la colpa senza curarsi di accertarne in modo definito le effettive responsabilità.” Questi furono individuati nel capo di stato maggiore, Luigi Cadorna, “allontanato dalla fronte attraverso un compito di mera rappresentanza,” e nel generale Luigi Capello che “divenne, anche per l’indole particolarmente irruenta, la figura su cui far convergere l’amarezza di un popolo per il coinvolgimento nei gravi fatti di Caporetto.”

Chi, invece, superò indenne la “tempesta” fu “colui che può essere ritenuto il responsabile principale della débâcle (il comandante del XXVII corpo d’armata)”: il generale Pietro Badoglio che, invece, dal 9 novembre 1917, ricoprì l’incarico di sottocapo di stato maggiore.

Prima di Caporetto, “durante gli anni durissimi e avari di risultati netti che contraddistinsero il comando del generale Cadorna,” il nome del generale Capello fu legato a successi quali la presa di Gorizia, della Sella del Vodice e la conquista dell’Altopiano della Bainsizza. Egli comprese che le gravi perdite, a fronte dei risultati ridotti ottenuti, erano da attribuirsi ai “formalismi di scuola distanti dalla realtà complessa e cruda del conflitto. […] Nel ridurre le perdite (la ragione principale delle quali era da ricercarsi nella densità eccessiva delle truppe sulla fronte di combattimento) mantenendo alto il morale degli uomini, vide un obiettivo da perseguire costantemente.” Egli si rese conto anche della “scarsa cura riservata sia all’addestramento continuo delle truppe, sia alle informazioni da fornire loro, sia alla preparazione psicologica più adeguata per sostenere il morale degli uomini (tutti fattori da lui ritenuti presupposti indispensabili all’efficacia dell’azione).”

Cadorna lo stimava - nonostante la sua continua ricerca di visibilità e il suo rapporto idilliaco con la stampa e “nonostante gli eccessi che ne contraddistinguevano l’indole (esagerato tanto nelle lodi quanto nei rimproveri diretti ai suoi soldati)” - e lo temeva, poiché angustiato dall’idea che ci fosse un complotto teso a destituirlo da chi gli avrebbe preferito proprio Capello. Il risultato fu che Capello venne trasferito in un posto più tranquillo, in modo tale che avesse meno visibilità, per poi essere richiamato sull’Isonzo, al comando della II armata (dove egli preparò l’avanzata della Bainsizza), una volta che, agli occhi di Cadorna, le ombre del complotto si furono diradate. Ma se l’XI battaglia dell’Isonzo fu per lui un successo, la XII, quella di Caporetto, segnò definitivamente, in maniera negativa, il suo destino.

Nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, egli mantenne la mente lucida ed energica. Ad essa “si devono l’idea tempestiva della ritirata strategica e la saldezza morale necessaria alla ricostruzione delle forze nei nuovi assetti necessari mentre le rovine ancora franavano.” Ma l’ordine di ripiegamento – che, “nel suo pensiero, non avrebbe costituito motivo di disonore, bensì si sarebbe dimostrato atto efficace di piena responsabilità, capace di rimediare, seppur in parte, ai danni già subiti” - concordato con Cadorna, fu trasformato, a sua insaputa, “in ordine di resistenza ad oltranza e le ultime riserve della II armata furono gettate nel baratro.”

Sottoposto al giudizio di una commissione d’inchiesta, i cui risultati furono dichiarati nulli in quanto in quanto viziati dalla pressione di alte personalità, egli ottenne un responso, molto meno ostile rispetto al precedente, da una seconda commissione.

Condannato successivamente a trent’anni (che non scontò interamente) per una presunta partecipazione all’attentato (mai suffragato da prove certe) a Mussolini, il quale “parve non essere convinto della sua colpevolezza,” Capello subì anche “lo schiaffo morale della perdita della totalità delle decorazioni (nonché del grado) di cui era stato insignito.” Gli verranno restituite, con Decreto del 26 dicembre 1947, sei anni dopo la sua morte.

Egli avrebbe voluto una riabilitazione con una risonanza pari alla condanna, ma questo non avvenne. Provato dalle umiliazioni del carcere, anche se fu sempre sostenuto dalla famiglia e amato dai compagni di cella, “Luigi Capello pagò duramente la propria indipendenza di pensiero poiché nessuno potè eleggerlo ad icona rappresentativa di un’ideologia di qualsivoglia tipo.”

“I portati del suo pensiero, foriero di elementi innovativi, trovarono in misura esigua i presupposti per attecchire compiutamente: a chi ancora guardava la realtà attraverso le lenti della tradizione senza porsi il problema di far fronte al mutare delle istanze, il pensiero di Capello riuscì incomprensibile se non addirittura molesto.”

Gianlorenzo Capano