Armir, le gavette ancora nel ghiaccio

04/08/20

La vita, per molti autori, è una rappresentazione scenica; non esiste canovaccio, è il corso dei fatti che attaglia i ruoli, che conferisce ad ogni evento la sua natura. La storia è fatta di episodi: comici, grotteschi, più spesso drammatici, con interpreti principali, comprimari, cori di comparse che, pur incolpevoli, versano il loro tributo di sangue; alla regia spesso c’è la guerra, con una sceneggiatura scritta dai caratteri che connotano ogni popolo. 79 anni fa si apriva, con il suo prologo, il tragico epos1 della Campagna di Russia, l’unica capace di generare, tra gli eventi dal ‘40 al ‘43, un significativo e non sempre disinteressato volume letterario; il fatto che nel ‘41 ci siano pubblicazioni sul bolscevismo, e che i reduci abbiano poi proseguito con memorie già nel ‘46-‘47, ha indotto l’immaginario collettivo ad una visione nitida della Campagna, alimentata da una contrapposizione politica bipolare e frontale, secondo una pubblicistica che non sempre ha reso giustizia alla complessità del conflitto.

Da un punto di vista scientifico, la guerra Italiana rientra nelle tematiche poco indagate e dunque di difficile giudizio critico; fino a periodi relativamente recenti, salvo rare eccezioni, molti aspetti delle attività operative sono rimasti in ombra. Quel che è certo è che, relativamente all’URSS, Campagna, e soprattutto Prigionia, sono diventati argomenti con significati diversi in funzione di chi se ne faceva portavoce, e che nel tempo si sono creati stereotipi che hanno voluto allontanare, non sempre con piena ragione, l’icona del soldato italiano da quella dell’omologo tedesco; la rappresentazione degli Italiani brava gente è stata il fulcro della presa di distanza dall’ex alleato, funzionale alla creazione di un’identità nazionale post bellica, sostenuta da diserzioni che non consentivano comunque il ritorno in Patria, dalla ritirata a piedi nella steppa gelata, da decine di migliaia di morti e spesso dall’esperienza disumana della prigionia, in controtendenza con le previsioni dello stato maggiore generale che, pronosticando un breve conflitto, non comprese che sul Don stava finendo un sistema di valori.

È lo stesso generale Messe, unico stratega italiano sul campo, a dire nel luglio del ‘43, una volta catturato dai Neozelandesi, che ..Noi siamo generosi, noi ..non sappiamo odiare. La nostra anima è fatta così, perciò io ho sempre sostenuto che noi non siamo un popolo guerriero, un popolo guerriero odia..

Il tema della partecipazione italiana all’invasione dell’URSS non è riconducibile ad un vezzo ideologico: per l’Italia la penetrazione nell’area Balcanica costituiva un progetto imperiale cui la guerra non mutò la sostanza e conferì un significato concreto in cui i propositi italici collisero con quelli tedeschi.

La Germania non svelò mai quali fossero i piani per i territori caduti sotto il suo dominio, tanto da costringere gli Italiani a cercare, fino alla fine delle operazioni, notizie utili sulle intenzioni tedesche, una curiosità più che legittima, viste sia le modalità dell’Anschluss del ‘38, sia quelle del Patto Molotov-Ribbentrop del ‘39, situazioni preconizzate da Mackinder, che temeva la nascita di una supremazia russo tedesca all’interno dell’heartland, capace di incrementare un potere marittimo atlantico; una previsione che la guerra ha ritardato ma che ora, dopo più di 70 anni, potrebbe lentamente prendere forma con la formazione dell’asse Mosca Berlino.

L’operazione Barbarossa, che escludeva l’Italia ma cooptava Romania, Ungheria e Finlandia, concretizzò dunque la volontà tedesca di appropriarsi dell’heartland, lo spazio vitale di Ratzel per dominare l’Europa centrale e occidentale; tuttavia ripercorse i sentieri della campagna Napoleonica del 1812 che, come negli anni ‘40, esaltò il patriottismo russo: il principe Aleksandr Nevskij avrebbe potuto ricordare che chi giunge in Russia con la spada, di spada muore, e che sottovalutare il nemico può essere controproducente.

La linea del fronte corre dal Baltico al Mar Nero; le iniziali perdite sovietiche sono altissime; l’Italia si associa all’impresa, e malgrado le reticenze tedesche, invia il CSIR2, al comando del generale Giovanni Messe che, pur organizzando al meglio le forze disponibili, non può celare l’impreparazione in termini di qualità e quantità di armamenti, di mezzi di trasporto, di logistica; una volta caduta Kiev i sovietici contrattaccano e ripiegano sfruttando la profondità, l’avvicinarsi dell’inverno, e decretando così l’inizio della fine per gli eserciti invasori. Stalin ordina la difesa ad oltranza di Mosca, si arresta l’avanzata tedesca.

Nel frattempo Messe comunica a Roma in quale situazione versino le truppe, tanto da non esitare a ricorrere ad acquisti non convenzionali3 in Romania pur di sostenere le sue forze, prive del vestiario necessario per l’imminente inverno; Messe ha il coraggio di sostenere la necessità di risolvere il problema logistico. Quello che arriva dall’Italia è insufficiente, mette in crisi il fronte nord africano, dove non giungono supporti adeguati, e dove la Germania è costretta ad impegnare l’Afrika Korps di Rommel.

Nel ‘42 Messe ribadisce a Mussolini che l’invio di altri contingenti avrebbe costituito un prezzo insostenibile per l’Italia; Mussolini, già in difficoltà dal ’41, risponde che al tavolo della pace peseranno assai più i 200 mila dell'Armata che i 60 mila del Csir.

Il 2 giugno ‘42 nasce l'Armir4, 229.000 uomini male attrezzati, ma funzionali a compensare il timore politico di un’estromissione italiana a favore degli altri alleati; l’Armata non viene affidata all’ottimo Messe ma al generale Gariboldi (foto), verso cui il giudizio della storia sarà impietoso. G. Bedeschi, in Centomila gavette di ghiaccio, sottolinea l’assurdità delle decisioni apicali, con l’esempio del colonnello Pietro Gay, rimosso da Mussolini nel dicembre ’42, reo di aver criticato l’impiego di un corpo d’armata Alpino nella zona pianeggiante del Don.

Non mancano gli atti di eroismo come a Isbuscenskij, dove va in scena l’ultima vera carica di cavalleria condotta dal reggimento Savoia: i tedeschi si congratulano per un’azione a cui non sono più addestrati, con ciò intendendo che si tratta di tattiche superate.

A Stalingrado, a settembre, inizia la battaglia che, nel decidere le sorti dell’invasione, fa scoprire ai tedeschi che la sofferenza non risparmia nessuno, neanche gli eletti; toccanti le ultime lettere dei soldati del Reich dalla città assediata. Lo schieramento dell’Asse si infrange sotto i colpi di maglio dell’Armata Rossa, ed i ritrosi tedeschi ora apprezzano i contingenti italiani.

Hitler rifiuta qualsiasi ipotesi armistiziale; allo sferrare dell’offensiva russa del piccolo Saturno, il 19 dicembre '42, nella valle del Don, viene dato alle truppe italiane l'ordine di ripiegamento: inizia la ritirata dell'Armir.

Ci fosse stato Senofonte avrebbe scritto la catabasi, il tragico ritorno dei resti di un’Armata che, a differenza di quella dei 10.000 Greci, non troverà thalassa, il mare, ma la morte o le marce del davaj5; il 26 gennaio, a Nikolajewka, Tridentina, Julia, Cuneense ingaggiano battaglia contro le truppe sovietiche: muoiono dai quattro ai seimila soldati.

Di 229.000 uomini inviati in Russia, 29.690 furono rimpatriati per ferite o congelamento, i superstiti furono 114.485; degli 84.825 dispersi, 10.030 furono restituiti dall’URSS; stando agli archivi del Pcus, dei 74.795 mancanti, molti morirono nei campi di concentramento. Gli ultimi prigionieri furono liberati nel 1954, dopo essere stati trattenuti sia con pretesti, sia grazie alle vili delazioni di altri prigionieri; solo dal 1990 furono avviate le esumazioni dai cimiteri campali russi.

Guareschi, ne Il compagno Don Camillo, quando il Brusco verrà sorpreso a cercare la sepoltura del fratello, farà dire a Don Camillo: “chi ha avuto venti milioni di caduti in guerra non può preoccuparsi dei cinquanta o centomila morti che il nemico gli ha lasciato in casa”. Ed il Brusco risponderà: “Ma questo non posso mica andarglielo a raccontare a mia madre!”.

Chi torna in Italia trova un Paese prossimo alla crisi politica del 25 luglio.

L’ARMIR fu il punto di svolta nei rapporti italo-tedeschi, sia per le accuse mosse agli Italiani per il cedimento del fronte del Don, sia per quanto riguardò l'atteggiamento nei confronti dell'alleato: se fino alla ritirata c’era stato un sospettoso cameratismo, dopo il cedimento del fronte, si palesò un sentimento di ostile insofferenza nei confronti dei tedeschi; tuttavia, un'analisi più attenta ha rivelato diversi esempi in cui tedeschi ed italiani tennero i medesimi comportamenti, indotti dalla dura logica della sopravvivenza6.

La ritirata dal Don determinò un impatto psicologico tale da suscitare prima sentimenti anti tedeschi, poi da permettere di conquistare il primo piano nel dibattito tra sinistre, ambienti militari e conservatori. Al di là di un difficile rientro, i reduci costituirono un problema per il governo nazionale, impegnato nella ricostruzione del tessuto interno più che a rimpatriare prigionieri, le cui idee politiche erano peraltro ancora tutte da verificare.

Per i prigionieri dell’URSS, furono le autorità sovietiche a ritardarne la restituzione, soprattutto quella degli ufficiali, temendo che i loro racconti, nel ‘46, potessero influenzare la consultazione referendaria ai danni del Fronte Democratico Popolare. Nel ‘47, con il IV governo De Gasperi e l’allontanamento dei social comunisti, il tema dei prigionieri prese a essere utilizzato in funzione elettorale, fino a giungere alla lettera di Togliatti a Vincenzo Bianco, rinvenuta nel 1992, e dimostratasi artatamente manipolata.

Al sergente Scudrera di Giulio Bedeschi, il capotreno del convoglio che lo ha riportato in Patria impone di non farsi vedere dicendogli.. “Che alpini o non alpini! Ma vi vedete? … vi accorgete sì o no, Cristo, che fate schifo?”; nel ‘70 de Sica porta nella Russia degli anni ‘50 Giovanna (S.Loren), alla ricerca del marito Antonio (M. Mastroianni) disperso in guerra, ed ormai legato ad una donna russa che lo ha salvato dal congelamento.

Insomma, la campagna di Russia, per molto tempo, è rimasta latente, ma viva, nella coscienza nazionale; dubitiamo lo possa essere ancora. Facile a dimenticare i momenti critici, la società moderna rimuove ogni asperità, anche a costo di uccidere per la terza volta uomini già condannati dalla superficialità patria prima, e dalla burocrazia sovietica poi.

Dedico questo articolo alla memoria del generale Enrico Reginato.

Gino Lanzara

1 Canto

2 Corpo di Spedizione Italiano in Russia

3 Mercato nero

4 8^ Armata Italiana in Russia

5 Andiamo!

6 Il generale Eibl, comandante del XXIV Panzerkorps il 21 gennaio 43 rimase ucciso per l'esplosione di una bomba a mano scagliata dagli Alpini contro il suo veicolo di comando, probabilmente scambiato per un mezzo nemico

Foto: web / Bundesarchiv