Nei giorni scorsi hanno avuto luogo, in Libia, ed in particolare nella zona di Sirte, alcuni bombardamenti “mirati” da parte dell’aviazione statunitense, che avrebbero colpito alcune postazioni del Califfato in quell’area: l’operazione è stata, per molti, una sorpresa, sia sotto il profilo politico, sia sotto il profilo giuridico.
Per quanto riguarda il primo aspetto (quello politico), infatti, lasciano pensare soprattutto i tempi e le modalità dell’attacco USA: sin da dopo le missioni (sul cui esito si potrebbe discutere) in Afghanistan ed Iraq, l’amministrazione Obama si è sempre di più disimpegnata dal contesto mediorientale e da quello del mondo mediterraneo in particolare, lasciando la gestione delle c.d. primavere arabe agli stessi stati europei.
Proprio con riguardo alla Libia, si ricorderà la disastrosa gestione dell’intervento militare del 2011, a conduzione francese ed inglese; e non può non considerarsi la paventata ipotesi di affidare all’Italia la nuova missione nel paese nordafricano che si sarebbe dovuta dispiegare al massimo all’inizio della primavera scorsa (ironia della sorte, potrebbe dirsi), questa volta in funzione anti-Isis.
Quello che alcuni analisti ipotizzano è che, quella statunitense, possa essere una risposta alla Russia, una sorta di prova di forza, dal momento che proprio a giugno scorso il generale Haftar - acerrimo rivale di Fayez al Sarraj (nella foto, seduto a destra) - si era recato in visita a Mosca, per discutere, a quanto emerso, anche di una eventuale fornitura di armi dallo Stato retto da Putin.
L’unico dato, in tutto ciò, che parrebbe certo è che la richiesta di intervento militare americana sia stata avanzata dallo stesso governo libico (quello che nelle intenzioni delle Nazioni Unite dovrebbe garantire l’unità nazionale, presieduto da Fayez al Sarraj) ed autorizzato direttamente da Obama.
Da qui, arriviamo al profilo giuridico: se fosse vero quanto testè affermato (e le dichiarazioni sia dello stesso Al Sarraj che dei vari esponenti del governo statunitense - in primis del Dipartimento della Difesa - sembrano confermarlo), potrebbe ritenersi lecito l’intervento militare Usa, a patto che possa, anzitutto, riconoscersi la legittimità dell’attuale governo libico.
In particolare, si dovrebbe ragionare in termini di effettività dello stesso, ossia se esso, oltre a godere del riconoscimento internazionale (sul quale pure si potrebbe discutere, e che comunque non sembrerebbe affatto unanime), abbia la forza per affermarsi all’interno della stessa Libia, dal momento che, tutt’oggi, vi sono importanti sacche di resistenza e di contrasto (tra cui la Camera dei rappresentanti a Tobruk, che ancora gli deve votare la fiducia e, fino a poche settimane fa, il Nuovo Congresso Nazionale Generale di Tripoli, recentemente sciolto, senza contare il ruolo dello stesso generale Haftar prima richiamato).
Proprio nei suddetti termini, non a caso, si è espressa in queste ore la Russia, che ha ritenuto del tutto illegittimi i raid americani su Sirte, proprio perché richiesti da un governo che non sarebbe effettivo ed internazionalmente riconosciuto da tutti.
Certamente, sono tanti gli interessi in gioco, così come le interpretazioni (anche giuridiche) che si possono dare: ad esempio, se la risoluzione ONU 2259 del 2015 sembra legittimare l’uso di ogni mezzo (“Reaffirming the need to combat by all means, in accordance with the Charter of the United Nations and international law…”), è altresì vero che non vi è alcun richiamo al capitolo VII della Carta Onu (generalmente previsto nelle grandi missioni internazionali per riconoscere il crisma della legalità internazionale agli interventi armati).
Ragionando al contrario, d’altronde, ove fosse mancato (o si considerasse illegittimo) il consenso del governo libico, è chiaro che le azioni militari americane sarebbero state svolte in violazione dell’articolo 2 paragrafo 4 della suddetta Carta (secondo cui i membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualunque stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite), tranne che vi fosse stata un’autorizzazione dal Consiglio di Sicurezza (e non sembrerebbe questo il caso, sebbene non siano mancate, in passato, quelle concesse “ex post”) o si fosse versato in una situazione di legittima difesa.
Ed è proprio a quest’ultima, in realtà, che si richiamano parte degli esponenti americani e, più in generale, coloro che “sposano” la legittimità dell’intervento statunitense nel paese nordafricano, facendo rientrare il raid in discussione (e, presumibilmente, quelli che seguiranno) nella war on terrorism contro l’Isis, da intendersi svolta worldwide (ossia, per tutto il globo, ove ve ne fosse bisogno: vedasi, ad esempio, le uccisioni mirate commesse per mezzo degli APR in diverse aree geografiche, non sempre con il consenso dello Stato all’interno del quale esse sono state compiute) e, sostanzialmente, senza vincoli temporali.
Quindi, per riassumere, o si è agito in presenza di un valido consenso del governo libico (necessario, secondo dottrina autoritaria, anche nel caso di responsabilità di proteggere - R2P, responsability to protect - ossia del dovere di uno Stato di proteggere la popolazione propria o di altro Stato in caso di genocidio, crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l’umanità, derogabile solo da una risoluzione “ad hoc” del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite), oppure l’intervento americano deve essere avvenuto in situazione di legittima difesa che, per sua natura, non prevede una “autorizzazione” preventiva dell’Onu, e che è esplicitamente previsto dall’art. 51 della relativa Carta, secondo cui “Nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale…”.
Si potrebbe discutere sulla nozione di difesa legittima (anche preventiva), sul concetto - prima richiamato - di war on terrorism così come su quello relativo alla effettività dell’attuale governo libico - nei termini prima chiariti - ma le interpretazioni potrebbero essere delle più disparate.
D’altronde, il diritto internazionale è - molto spesso - creato dai forti, e come tale interpretato nelle diverse situazioni: in tal senso, di certo, non aiuta il linguaggio “onusiano”, spesso infarcito di “constructive ambiguity”, ossia di quella particolare tecnica usata in diplomazia che, se da una parte consente di ottenere l’adozione di un testo, nonostante l’assenza di un consenso tra gli stati che dovrebbero votarlo, dall’altra aumenta (e non è sempre un fatto positivo) le possibilità interpretative dello stesso.
L’impressione (ricavabile anche da altri fatti - recenti e non - che stanno caratterizzando lo scenario geopolitico mondiale) è che si stia assistendo ad una nuova guerra a distanza tra Usa e Russia, con tutte le implicazioni (o le cause) riguardanti la lotta al terrorismo e gli ovvi interessi anche degli Stati europei nello scenario nord-africano, e non solo.
(foto: U.S. Air Force / presidenza cdm / U.S. Air National Guard)