L’8 settembre del ’43 ero già nell’aldilà, appena arrivato insieme ai 54 marinai del sommergibile Velella, affondato la sera prima da quattro siluri inglesi al largo di Punta Licosa. Il mio nome è Scheggia; ero il gatto-mascotte di bordo, in pratica il cinquantacinquesimo membro dell’equipaggio; consideravo Il tenente di vascello Mario Patanè, comandante del Velella, anche mio comandante.
Per chi legge devo premettere una circostanza che i viventi non conoscono: chi appartiene all'eternità è padrone di ogni conoscenza del passato e del presente, ma non del futuro, peraltro ignoto anche al Creatore per via del libero arbitrio che Lui stesso ha concesso agli uomini. Altra verità che si deve conoscere è che nell'aldilà possono finire anche alcuni esseri viventi che sono stati compagni dell'umanità nel viaggio terreno; intendo cani, cavalli e gatti. D'altra parte c'era da aspettarselo che il Padreterno, dopo aver affollato di questi esseri il paradiso terrestre, perché mai avrebbe dovuti escluderli da quello celeste? Altrettanto scontato che tutte le razze, umane e non, nell'aldilà si intendano con un linguaggio comune.
Alle 20.03 del 7 settembre del '43 il Velella, che era uscito dal porto di Castellamare di Stabia per contrastare le marine angloamericane che ormai avevano il controllo del Mediterraneo, fu colpito da un primo siluro, ed io, come facevo ogni volta che sentivo un'esplosione, mi gettai tra le braccia del marinaio più vicino; era il mio modo di sentirmi al sicuro. Ma la sequenza delle esplosioni dei tre successivi siluri fu rapida e il Valella rapidamente affondò, lasciando ai marinai appena il tempo di rendersi conto dell'inevitabile e di rivolgere un ultimo pensiero ai propri cari: figli, moglie, genitori, amici... momenti terribili per un sommergibilista, durante i quali non può neanche sollevare un'ultima volta gli occhi ad un cielo che nei sommergibili non c'è.
Solo il giorno dopo il mondo seppe che già da una settimana l'Italia aveva firmato un armistizio con gli angloamericani e concordato la fuga da Roma di Vittorio Emanuele III e di Badoglio. Queste decisioni avrebbero dovuto indurre i nostri capi politici e militari a emanare per tempo gli ordini necessari per scongiurare inutili stragi come quella del Velella, che non sarebbe dovuto uscire dal porto di Castellamare, e della corazzata Roma che fu affondata nelle Bocche di Bonifacio, unitamente ad altre due unità della regia marina, trascinando in fondo al mare 1393 dei suoi marinai.
Ogni 8 settembre, a partire da quella tragica data, quanti perdemmo la vita continuando a combattere chi a fianco dei vecchi alleati e chi contro di essi, ma tutti perché lasciati senza ordini e pertanto costretti a scegliere ognuno secondo la propria coscienza, noi del Velella ci affacciamo sulla Caput Mundi per verificare gli effetti del nostro sacrificio e tastare il polso della memoria dei nostri connazionali.
Anche quest'anno grande è stato lo sconforto nell'assistere a dimesse cerimonie alla presenza di quattro gatti (me compreso!) che si sono dovuti sorbire il solito pistolotto esaltante chi scelse di combattere per liberare l'Italia dal vecchio alleato schierandosi con i nemici del giorno prima. Un rito che rinfocola le contrapposizioni e alimenta la disgregazione sociale. Per noi del Velella non un pensiero, non un ricordo, non un fiore né il nome di una strada, di una scuola, di una caserma a ricordare la nostra tragedia. E neanche l'intestazione di un'aula parlamentare, come disposto per l'eroe di uno storico G8 genovese.
Come ogni anno ci siamo quindi rassegnati a raccoglierci davanti all'Altare della Patria dove il marinaio Junio Valerio Borghese ha gettato al vento, come ogni anno, il suo messaggio: “In ogni guerra, la questione di fondo non è tanto di vincere o di perdere, di vivere o di morire; ma di come si vince, di come si perde, di come si vive, di come si muore. Una guerra si può perdere, ma con dignità e lealtà. La resa e il tradimento bollano per secoli un popolo davanti al mondo”.
Non ci resta che sperare che in un improbabile futuro, imprevedibile per via del libero arbitrio umano, gli italiani considerino patrimonio comune tutto il loro passato e l'intera storia nazionale, ricordando anche chi ha fatto scelte scomode, dolorose e senza speranza; senza dimenticare, perché no?, cani, cavalli e gatti uccisi dalle guerre al fianco dei soldati.
Nicolò Manca