La ricreazione è finita

(di Walter Raleigh)
02/02/24

La politica conserva i suoi luoghi di elezione; la Ville Lumiere è uno di quelli, malgrado i diffusori mediatici nazionali la rammentino solo per altri eventi. Senza nulla togliere a gilet, moda e trattori, il fatto che a fine gennaio quota parte dei vertici delle Marine militari1 potenzialmente più influenti su scala regionale e planetaria si siano riuniti all’ombra della Tour Eiffel, dovrebbe suscitare un interesse non indifferente. Il condizionale è d’obbligo perché non è stato così: l’abitudine alla bega da cortile ed allo sguardo solo sul proprio ombelico non si muta d’emblèe.

Deterrenza, interoperabilità, conflitti nelle zone grigie ed innovazione tecnologica sono argomenti rilevanti cui se ne accompagnano altri strettamente connessi, in un ambito in cui la distruzione degli obiettivi deve essere considerata quale dato di fatto. Posto che la presenza di un gruppo d’attacco di portaerei conserva un’indiscutibile carica dissuasiva malgrado la sofisticazione delle capacità di interdizione, una forza navale credibile e soprattutto motivata nei suoi equipaggi, capitale umano quanto mai depauperato, rimane l’unica vera leva politico-diplomatica.

Facile a dirsi, molto meno a farsi, intanto per spinosissime problematiche interne, e poi per quanto riverbera dall’esterno; la tornata elettorale americana, a seconda di chi conquisterà la Casa Bianca, proporrà sfide diverse; non è nuova l’avversione di Trump verso la Nato. Al netto di populismi e braccine corte sui bilanci con un burden shifting e non sharing, l’ipotetica fine dell’Alleanza consegnerebbe, ad un mondo multilateralizzato, infiniti micropoli con sbilanciamenti anarchici produttivi solo di soggetti politici deboli e indifendibili. Per loro colpa, ovviamente.

Posizioni sterili di principio ed alla moda non possono avere cittadinanza, visto che black swan The Donald tenterà di riprendersi lo stagno con tutti i radicalismi isolazionisti possibili. Chi proporranno i Dem, arzilli vecchietti a parte? Intanto, posto che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, una cosa è certa: la limitazione della presenza globale a stelle e strisce, malgrado i proclami elettorali, è impossibile, visti gli effetti prodotti da Ucraina e Hamas nello sparigliare le carte tra Europa e Medio Oriente.

Che rimarrebbe da fare per europei impreparati e geneticamente portati alle capriole politiche come la versione polacca di Stalin sta a ricordare, e pacifisticamente privi di spirito combattivo, in caso di emergenza?

1. sperare che gli americani cambino idea e tornino sui loro passi, come nel ’41 (difficile; un bostoniano accetterebbe di morire per un europeo?);

2. compiacere il miglior messo imperiale di turno, offrendo umilianti e serici vassallaggi orientali (facile, già fatto);

3. capire infine che presentarsi con il ramo d’ulivo non esonera dalle fucilate di chi ha tutt’altre intenzioni nei nostri confronti (vd. La guerra di Piero).

Non comprendere che si dipende da queste dinamiche è una tara; è la globalizzazione bambola: un battito d’ali a Washington fa partire un missile nel Mar Rosso. L’entropia americana è un problema per tutti anche perché leadership e proiezione di potenza non sono cose cui si rinuncia facilmente, visto che il prezzo da pagare sarebbe immensamente superiore a quello da sostenere per mantenere il primato.

E allora quanto costano gli attentati alla navigazione nel Mar Rosso? Troppo, ma la minaccia non è eradicabile solo dal mare e riguarda tutti, non solo gli americani, colpiti da droni nemici al confine giordano. Gli houthi hanno dimostrato che qualsiasi choke point può diventare un punto di faglia politico, e che il declinante Occidente è di fatto privo di autonomia strategica.

Nell’Indo Pacifico la Cina, per ora, preferisce il controllo anche se pervasivo, fermo restando che l’anglosassone Aukus non mostra propensioni a nessuna forma di vassallaggio, setoso o meno che sia.

A chi conviene un tramonto americano? A chi invoca i BRICS, un sodalizio anti occidentale in competizione al suo stesso interno? Basterebbe analizzare la situazione economica sudafricana e dell’ex aspirante adepto argentino affamato di mancati aiuti per averne coscienza.

Probabilmente ciò che necessita di più è deterrenza, timore di rappresaglie, contenimento deciso dell’anarchia nelle relazioni internazionali; l’Europa, nell’ambito delle capacità già disponibili di Emasoh/Agenor nello Stretto di Hormuz, ha pianificato l’Operazione Aspides, una missione difensiva e non proiettabile verso lo Yemen e che porta con sé speranzosi auspici politici tutti però da confermare.

Capitolo Italia. Privo di strategie di lungo termine, il Paese assiste alle consuete ed avvilenti liti da cortile; il Piano Mattei non sarà perfetto, come diceva il bardo il futuro lo scopriremo solo vivendo ma, dopo i fallimenti libici nascosti frettolosamente e male sotto il tappeto (la Turchia ringrazia), è quanto meno un disegno di politica estera contro cui scagliarsi indebolisce il famoso sistema paese, concetto citato da molti ma compreso da pochi, dove pochi è ottimistico. Certo, acquistare risorse fossili dall’Algeria può creare problemi derivanti dalle politiche del pouvoir ma, visto che ognuno prima o poi si deve piangere le conseguenze delle decisioni adottate, la scelta auto-obbligata delle fonti energetiche non può che portare a dipendere da qualsiasi fornitore si tratti, un peccato capitale non averlo ancora inteso.

Quel che il sistema politico (quello del cortile) non riesce a comprendere è la posizione italiana in un contesto internazionale che attribuisce a Roma responsabilità geopolitiche cui adeguarsi in fretta, conservando coerenza ed affidabilità, doti che si acquisiscono grazie anche a FA proiettabili ed equipaggiate; presentarsi come l’anello debole della catena, come accaduto con la firma dell’MoU della BRI, azzoppa i rapporti con i partner tradizionali, comunque già di loro ben disposti come venditori concorrenti di auto usate in una fiera campionaria, così come non aiuta ricorrere a refrain propagandistici che travisano la realtà per la comodità delle anime pigre, ammesso che siano anime innocenti. Ma visto che l’innocenza nelle relazioni internazionali è un ossimoro, Churchill avrebbe detto che il ventre molle era e molle è rimasto.

Il tema equipaggiamenti bellici riemerge periodicamente; il lapsus freudiano del ministro della Difesa in tema missilistico si rifà, (in)consciamente, a quanto asserito già da tempo dal capo della Marina in sede parlamentare. Nessun mistero, forse solo preoccupazioni in tardivo affioramento.

Italia dunque evocata in ambito politico-diplomatico sia in Medio Oriente sia nell’Indo Pacifico, con partnership fattive e partecipazioni di prestigio alla RIMPAC2; il problema è riuscire a dare continuità strategiche di ampio respiro da gestire accortamente, stringendo rapporti contemporanei con India, Corea (del Sud) e Tokyo, antagonista di Pechino. Ne saremo capaci? L’esperienza libica induce a forti perplessità.

Intanto occorre più che mai la Marina, chiamata a rivestire ruoli strategici e di equilibrio; inutile girarci in tondo: gli houthi stanno danneggiando l’economia italiana, dato che il Paese non dispone di porti atlantici e che il calo del traffico sta diventando sensibile. Fondamentale dunque sfruttare la posizione, che premia distanze e logistica.

Secondo Luttwack, nel Mar Rosso dovrebbe essere intrapresa una missione non di mera rappresentanza ma, partecipe dell’intelligence occidentale, volta a proteggere direttamente interessi nazionali e libertà di navigazione, assumendo dunque un ruolo di rilievo sia nel dispositivo occidentale, sia per l’Egitto, in sofferenza per la perdita degli incassi dal canale di Suez, sia per l’Arabia Saudita, per cui Gedda rimane economicamente fondamentale. È necessario però accertare quanto il falsamente comodo ed improduttivo quietismo astrategico della politica nazionale impatti sui risultati concreti.

Mediterraneo allargato italiano e Indo-Pacific Strategy americana compendiano le stesse necessità: per l’Italia va garantita la libertà di navigazione tra Oceano Indiano e Mar Rosso in quanto accessi in un Mediterraneo territorializzato; per Washington va ribilanciato l’equilibrio di potenza purché si preservi la stabilità geopolitica regionale, contenendo le ambizioni cinesi. Va da sé che una profondità strategica di questo tipo, che i turchi conoscono bene e praticano meglio, va connessa a capacità militari, politiche ed economiche in grado di sostenere competizione e globalizzazione anche in acque geograficamente lontane ma economicamente fin troppo prossime.

1 Il capo delle Operazioni Navali USA ammiraglio Lisa Franchetti, il capo di stato maggiore francese l’ammiraglio Nicolas Vaujour, l'ammiraglio inglese sir Ben Key, primo lord del Mare e capo di stato maggiore della Marina del Regno Unito, l’ammiraglio Enrico Credendino capo di stato maggiore della marina Militare Italiana, Il vice ammiraglio Rajesh Pendharcar della Marina indiana

2 Per la prima volta l’Italia partecipa alla più importante esercitazione in quella che sarà la zona del prossimo confronto egemonico.

Foto: U.S. Navy