Donbass - Cap.4: Terra di nessuno

(di Giorgio Bianchi, Giampiero Venturi)
02/07/16

È mattina presto e il telefono squilla; le chiamate sulla SIM Feniks sono sempre importanti perché al fronte non operano altre compagnie telefoniche. È Yuri, il comandante del 5° Battaglione di stanza a Spartak. È stato di parola. Per la terza volta ci ospita, ma questa volta vuole farci un regalo: ci porterà nella postazione avanzata di avvistamento, quella che guarda oltre la terra di nessuno, da dove il nemico si guarda direttamente negli occhi. 20 minuti e Felix con la sua Lada rossa è al solito punto d’incontro.

Si cammina in fretta e ci si guarda attorno; lo scenario è immobile nel tempo e nello spazio. Cambiano solo i dettagli che l’occhio allenato alla guerra rivela ogni giorno di più: l’immenso stradone con i cartelloni pubblicitari abbattuti, i tralicci della ferrovia penzolanti e le prime casupole con le rose che fanno capolino tra l’erba troppo alta. Cani randagi, asfalto divelto, detriti sparsi e un contadino isolato che zappa il suo orto. È surreale, quindi è lei, è Spartak…

Arrivati alla villetta l’accoglienza è calorosa come sempre. In cambio dell’ospitalità abbiamo portato thè, caffè, sigarette, bibite, acqua minerale e gli irrinunciabili semi di girasole, tortura per la sete, ma droga irrinunciabile della gente del Donbass…

Il comandante dice che raggiungere l’avamposto è troppo pericoloso per l’intensità degli spari. Bisogna rimandare. Ci mettiamo comodi e degustiamo il ciai che Alexiej ci ha preparato. Osservare i soldati nella loro routine sembra un film vecchio ricolorato solo per noi. Il tempo in prima linea scorre lento, così lento da fermarsi spesso: chi si rade, chi lava i panni, chi si fa la doccia, chi spazza il portico… Ogni mansione serve a non pensare e a uccidere tensione, paura e noia. Il cuoco nel frattempo sminuzza le verdure. Forse perché siamo ospiti o forse è il caso: al posto della solita kasha si mangia okroshka la zuppa fredda tradizionale.

Dopo mangiato passa a trovarci Spartaco, il volontario italiano arruolato nell’esercito del Donbass. Viene da una postazione avanzata a 600 metri dalla nostra (e a 700 dagli ucraini). Ci dice che la nostra “gita” è molto pericolosa e soprattutto eccezionale: sottolinea più volte che se ci portano là, vuol dire che si fidano di noi. Nel Donbass, al momento non ci sono giornalisti occidentali a maggior ragione in postazioni così avanzate.

Passa il tempo. Le nubi si addensano e si alza il vento. Il cielo si fa scuro come piombo ed il rombo dei tuoni ruba l’eco a quello dell’artiglieria. È un suono diverso, più lungo, ma l’effetto è lo stesso: fa venire i brividi. Il comandante ci chiama: è il momento buono per andare. Il rumore del vento, i tuoni ed il cielo scuro fanno da copertura ad un’autentica marcia. C’è da camminare e da correre parecchio. Niente giubbetto antiproiettile; solo elmetto e vegetata. I cecchini ucraini sono appostati e non aspettano altro.

La tempesta avanza, l’apocalisse non ci è mai sembrata così reale. Si marcia veloci attraverso viali deserti, orti abbandonati e cortili desolati. Ovunque macerie, devastazione, munizioni esplose e… benedetta, benedettissima erba alta. Il comandante indica un’abitazione sopra una leggera altura con le finestre accecate dalle esplosioni. Entriamo in fretta e saliamo: ringhiere in ferro battuto, lampadari di cristallo, un camino… immaginiamo brindisi, sorrisi e feste di tempi andati. Le scritte sui muri cancellate e rimarcate ora invece parlano di avanzate e ritirate. Saliamo ancora fino al solaio lungo assi di legno. Le scale non ci sono più. Tetto e muri laterali sono scomparsi. Strisciamo sopra detriti acuminati come rasoi fino ad arrivare sotto a un pezzo di muro. Un tavolo, una sedia, parti di un obice abbandonato tra le macerie…

Siamo nella guerra reale, crudele e piena di ruggine. Ci sporgiamo tra i mattoni scheggiati. Lungo una linea immaginaria che ci indicano come fronte campeggia una bandiera gialla come il grano, blu come il cielo… Vista da qui è solo la bandiera del nemico. Non c’è tempo per pensare ad altro. Usare il binocolo di giorno sarebbe troppo pericoloso per un avamposto in genere usato di notte. Si striscia di nuovo indietro e ci rimettiamo in marcia fino alla postazione più avanzata. Sono le 4 del pomeriggio ma sembra sera. Il temporale è alle porte; il rombo dei tuoni è ormai assordante. Per giungere a destinazione ci sono 300 metri in campo aperto. Sperando nella mimetica e in Dio bisogna correre più veloci del vento.

L’erba è alta in alcuni tratti anche più di un uomo ma ad un tratto uno sparo, poi una breve raffica… Non sappiamo se ci hanno localizzato o se sparano altrove, ma corriamo veloci senza pensare. Il respiro corto si alterna a quello dei passi. Il comandante parla alla radio e arrivano presto altre raffiche, questa volta più vicine. Stanno coprendo la nostra avanzata. Pozze d’acqua, cavi della luce da saltare come un gioco per bambini, buche da evitare, erba che frusta il viso, poi finalmente un edificio e una serranda. Scale di cemento, scale a pioli e si arriva in soffitta. L’immensa volta sorretta da capriate di legno fa pensare ad una cattedrale.

Un uomo in mimetica buttato su un materasso ed uno su una sedia con un binocolo in mano ci accolgono con un cenno del capo. Il comandante afferra un binocolo e si arrampica sulle capriate: da quel punto i movimenti degli ucraini non hanno segreti. Dopo una rapida osservazione porge il binocolo e c’invita a guardare. Si vede tutto: le trincee, i bunker, le cassette di munizioni riempite di sabbia. Con un telefono di bakelite si comunica col comando; non c’è movimento che da quella posizione possa sfuggire.

Inizia a piovere. Chissà perché ma sembra un bene. Uno sguardo d’intesa sulla soglia, il sorriso ingenuo da bambino del comandante e poi via di nuovo di corsa.

(foto/immagini: Giorgio Bianchi)