Reportage dal Kosovo: quale futuro?

(di Gian Pio Garramone)
07/10/21

È notizia di qualche giorno fa di tensioni al confine nord del Kosovo, dopo che Pristina ha vietato l'ingresso nel paese ai veicoli con targa serba, con lo schieramento di blocchi stradali unitamente a unità speciali della Kosovo Police, ai valichi di frontiera di Jarinje e Bernjak. La risposta di Belgrado non si è fatta attendere con il contro schieramento di alcune unità dell'Esercito e della Polizia, e sorvolo di caccia nella zona delle tensioni.

Forse ai lettori più giovani il nome Kosovo non dice nulla, e a quelli più maturi probabilmente ricorderà qualche vecchio telegiornale di fine anni novanta, che parlava dei combattimenti in Kosovo. A onor del vero è giusto ricordare a tutti i lettori, che in Kosovo vi è stanziata ancora una missione multinazionale della NATO, da ben 22 anni, a guida italiana dal 2013.

A tutt’oggi il Kosovo è una di quelle nazioni a riconoscimento parziale. Fino agli anni novanta era unitamente alla Vojvodina una delle due province autonome della Serbia, all'interno della Jugoslavia. Alla fine degli anni novanta la riduzione delle autonomie da parte di Slobodan Milošević e la forte spinta indipendentista kosovara portarono all’ultimo dei conflitti balcanici, che videro contrapporsi le truppe serbe e l’auto proclamato Esercito di Liberazione Kosovara, ai più noto come UCK. La guerra termino con lo schieramento di una forza multinazionale nel giugno del 1999. Ad oggi a seguito dell’auto proclamata indipendenza dalla Serbia, avvenuta il 17 febbraio 2008, il Kosovo risulta essere riconosciuto da 113 stati.

La missione NATO ancora in essere dura ormai da 22 anni e negli ultimi otto è stata a guida italiana, attualmente la comanda il generale di divisione Franco Federici.

Ma qual è ad oggi il mandato di missione della Kosovo Force più nota come KFOR, e soprattutto che problemi ha il Kosovo?

Una domanda sorge spontanea ed è: se la NATO decidesse di smobilitare ci sarebbe, come in Afganistan, un’escalation di instabilità? Fermo restando che non è intenzione della NATO chiudere la missione KFOR, non fosse altro per evitare altre figuracce come quella afghana.

Girando per il Kosovo la sensazione è che i tizzoni covano sotto la cenere. La problematica fondamentale del Kosovo è la perenne tensione, solo assopita ma mai risolta del tutto, tra la comunità serba e quella albanese; ma non mancano altri problemi come il radicalismo islamico e il passaggio della rotta migratoria terrestre.

Le comunità di etnia serba e quella albanese kosovara vivono una pace apparente, dove ogni pretesto è buono per mostrare i muscoli, come dimostrano le tensioni di questi giorni al confine nord.

In questo angolo di Balcani non mancano le realtà rimaste ferme alla firma degli accordi di pace di Rambouillet del 1999. Testimonianze eclatanti di tale stallo sono ad esempio: la città di Mitrovica e l’area del monastero serbo-ortodosso di Decane.

A Mitrovica la città è divisa praticamente in due dal fiume Ibar, dove a sud del fiume vive la comunità Albanese e a nord la comunità serba. Mitrovica del Nord ha una amministrazione parallela riconosciuta da Belgrado ma non da Pristina, cosa che avviene anche in altre città e villaggi a maggioranza serba.

Passeggiando per Mitrovica del nord si possono vedere lungo le strade principali sventolare a ogni palo della luce bandiere serbe, quasi a voler convincere il viandante che sta passeggiando in Serbia e non in Kosovo! Questo ovviamente è sinonimo che gli animi della popolazione non hanno ancora del tutto sotterrato l’ascia di guerra.

Il ponte tiene vivo il ricordo dei combattimenti nella città, gli albanesi vorrebbero aprirlo al traffico, ma i serbi si oppongono. La posta in gioco è simbolica, ma può determinare la sovranità su Mitrovica.

A garantire la sicurezza della città e in particolar modo del ponte, e che sullo stesso non vengano fatte azioni unilaterali, vi sono ancora oggi i carabinieri del contingente di MSU all’interno di KFOR, comandati del colonnello Stefano Fedele.

Altro luogo di primordine per i serbi è il monastero serbo ortodosso di Visoki Decane, eretto nel 1335, e dal 2004 "Patrimonio dell'Umanità". Il monastero non è mai stato danneggiato dalle numerose guerre che hanno flagellato l’area, custodisce un vero e proprio tesoro tra antiche icone, mobili intarsiati, oggetti liturgici e libri manoscritti.

Il monastero è uno dei maggiori custodi di tesori di tutta l’eredità culturale serba.

Visoki Decane con l’intera area che lo circonda, necessita ancora oggi della cinturazione e guardia fissa H24, da parte del contingente Italiano di KFOR. È l’unico caso in tutto il Kosovo dove i militari NATO sono i primi responsabili della sicurezza, perché ad oggi KFOR è solo il terzo risponditore in caso di instabilità, dopo la Kosovo Police, e gli uomini di EULEX.

Ulteriore problematica kosovara è quella del radicalismo islamico. Il paese è a maggioranza mussulmana, anche se passeggiando per le strade delle principali città non lo si direbbe, infatti le donne non sono assolutamente velate, anzi vestono e hanno un livello di emancipazione all’occidentale, e gli uomini bevono rakia (un distillato locale simile alla grappa).

In questa parte di Balcani il problema radicalismo è presente e concreto. Per alcune fasce di popolazione radicalizzarsi può essere anche, o forse l’unica, fonte di sostentamento per le proprie famiglie, in un paese che non offre grandissime opportunità di lavoro. Fondamentale il ruolo delle varie ONG che inviano nei Balcani fondi proveniente dai paesi del golfo. A testimonianza di ciò vi sono gli arresti del dicembre 2015, fatti dalla Polizia italiana di quattro cittadini kosovari con l’accusa di apologia di terrorismo. Radicalismo kosovaro testimoniato anche dall’apporto dato dai foreign fighters al Jihad in Siria. Ad ulteriore riprova vi è l’avvenuta traduzione, tra le altre lingue, anche in albanese del discorso di autoproclamazione a Califfo di Abu-Bakr Al-Baghdadi.

Fonti d’intelligence americane hanno quantificato il fenomeno balcanico, in circa 400 foreign fighters, di etnia albanese kosovara giunti in Siria, su undicimila stranieri, numero utile a formare un battaglione.

Dai Balcani parte anche buona parte del traffico d’armi, che poi finiscono in Medio Oriente attraverso le piste più differenti, le quali molte coincidenti con la rotta terrestre percorsa anche dai migranti.

I migranti percorrono la rotta terrestre nella porzione kosovara per dirigersi o in Serbia o in Montenegro. La piccola quantità che si ferma lo fa per una questione utilitaristica, cioè per fare una pausa dal lungo viaggio. Se si chiede asilo politico in Kosovo si può essere accolti e alloggiati in appositi centri allestiti dal governo di Pristina, per massimo un anno. La capacità di accoglienza del Kosovo si aggira intorno al migliaio di persone, cifra che coincide più o meno con quelli accolti l’anno scorso, ma in realtà una vera stima degli attraversamenti non c’è, anche perché non interessa molto alle autorità locali il fenomeno in quanto di passaggio.

Sempre sul fronte migranti gli Stati uniti hanno trasferito in Kosovo, con voli militari molti cittadini afghani, che hanno cooperato con le forze NATO durante i venti anni di missione in Afghanistan. I Rifugiati in attesa di espletare le procedure per avere documenti, che gli permettano l’ingresso negli Stati Uniti, sono ospitati in due campi uno allestito nelle aree della ditta di costruzioni Bechtel-Enka, nei pressi della città di Ferizaj e una restante parte ospitati nel campo Bondsteel, base dell’Esercito statunitense.

Ad oggi l’aliquota italiana del contingente KFOR conta 628 militari, 204 mezzi terrestri e 1 aereo.

Gli assetti operativi attualmente in campo sono meno “combat” e più di aderenza alla comunità civile ed alle istituzioni locali. Infatti il mandato di missione si basa principalmente su due cardini ovvero: SAFE (Safe and secure environment) e FOM (Freedom of movement).

In altre parole il compito del contingente multinazionale è quello di assicurare un ambiente sicuro e garantire la libertà di movimento attraverso tutto il territorio del Kosovo, per tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro origini etniche, in conformità con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Particolare assetto di missione sono gli equipaggi di LMT – Liaison Monitoring Team, che si muovono nelle varie municipalità. Una sorta di pattuglie simili al concetto nostrano del poliziotto di quartiere, con il compito di incontrare la popolazione, mantenere contatti con rappresentanti delle varie comunità locali, istituzioni, e fornire all’Headquarter di KFOR report aggiornati sulla situazione. Potremmo definirli come gli occhi e le orecchie del comandante generale.

Ha ancora senso tenere in piedi una missione multinazionale dove l’Italia unitamente agli Stati Uniti dà il maggior contributo?

La sola missione KFOR costa all’Italia poco più di 80.000.000 di Euro, senza contare gli ulteriori costi di missione di EULEX Kosovo, a cui l’Italia partecipa.

Tutto l’impegno e la professionalità messa in campo dai nostri militari, ma più in generale da tutti i militari della coalizione, attualmente deve fare i conti con un sostanziale stallo nelle operazioni di pacificazione.

Girando per il Kosovo e parlando con le persone, si può toccare con mano la netta divisione tra la comunità serba e quella albanese kosovara. I primi si sentono discriminati e lamentano disparità di trattamento, ad esempio per quanto riguarda l’accesso alle cariche pubbliche. I secondi lamentano continui atti provocatori nei loro confronti.

La comunità serba continua ad avere le proprie scuole separate e la propria amministrazione civica non riconosciuta da Pristina.

Chiacchierando con una fonte locale, alla mia domanda “…ma perché non riuscite a trovare un accordo e magari cedere quelle piccole aree contese, cosi da completare il processo di pace e trovare un pieno riconoscimento internazionale?” la risposta è stata “…perché dovremmo?”, prova tangibile che le due comunità vivono una pace apparente, dove ogni pretesto è buono per mostrare i muscoli, come dimostrano del resto le tensioni di questi giorni al confine nord.

Il contingente NATO resta l’unica garanzia che i tizzoni sotto la cenere non riprendano vigore, ma bisogna pur sempre fare i conti con un sostanziale stallo nel dialogo politico, fermo restando che le decisioni politiche dei contendenti non sono nel mandato di missione dei militari della Kosovo Force.

Soprattutto sarebbe ora che la comunità internazionale si rendesse conto che non basta mandare un drappello di soldati, dargli un mandato di missione fumoso e confuso, spendere una montagna di soldi per risolvere i problemi di instabilità nelle varie aree del mondo.

Se non si riesce ad essere incisivi e a produrre accordi politici chiari e decisivi da mettere in pratica nel breve periodo, non basterà firmare un cessate il fuoco che congela il conflitto, a riportare pace e benessere. Le varie missioni in giro per il mondo insegnano, a partire dalla recente esperienza in Afghanistan.

Per la pacificazione non bastano i militari, ma ci vuole una visione politica globale che ad oggi manca alla comunità internazionale. In assenza di una politica chiara e risolutiva nel medio termine dei problemi post conflict continueremo ad avere missioni con data di termine: mai!

Foto: autore / KFOR