“La scorsa è stata una notte devastante. Cinquecento talebani hanno attaccato la città. Hanno raggiunto il ponte di Malan a 5 chilometri a sud ovest di Herat. Donne e bambini sono fuggiti. Stiamo aspettando la morte ogni momento” - scrive allarmato Y.
“Ieri notte c'è stata una feroce battaglia tra il governativi e i talebani. Io e la mia famiglia eravamo terrorizzati. Siamo stati svegli fino al mattino e non siamo riusciti a dormire. La situazione qui peggiora di giorno in giorno. Portateci via da questo inferno il prima possibile!” - racconta angosciato W.
“Devo andare via dall'Afghanistan, saremmo uccisi, mia figlia resterà senza padre” - dice A. accorato.
“Non esco di casa se non c'è bisogno. Quand'è che ci portate in Italia?” - chiede sommessamente Ns in un messaggio vocale.
Sono alcuni tra i messaggi che si susseguono nello smartphone. Sono arrivati a grappoli questa mattina, e ognuno è una stilettata. Appartengono agli afgani che hanno collaborato con il contingente italiano.
Messaggi estenuanti arrivano ogni giorno, da quando gli italiani hanno abbandonato la base di Camp Arena il 28 giugno, e i talebani sono arrivati fino sotto la città di Herat, praticamente senza trovare resistenza.
Dal 9 di luglio c'è Ismail Khan, un ex-mujaheddin che ha organizzato la resistenza, che con le sue milizie presidia e ha cinturato la città. Dentro ci sono 390 nostri collaboratori che rischiano la vita, e che stanno aspettando di essere portati in Italia con le famiglie.
Novanta di loro hanno ricevuto, ancora il 27 di giugno, la conferma che la loro richiesta di asilo è stata accettata. Gli altri ancora nulla.
C'è da dire che nel nostro paese, ancora a giugno, sono stai portati in salvo 222 persone, quasi tutti interpreti con le loro famiglie.
Ma la gran parte degli altri collaboratori aveva presentato ancora a maggio, negli uffici di Camp Arena, una richiesta per venire in Italia, alla quale non era stato dato alcun riscontro. Un'attesa snervante che, nella situazione in cui sta precipitando l'Afghanistan, li aveva preoccupati, tanto da far loro organizzare ancora il 9 di giugno una manifestazione per farsi ascoltare.
Il silenzio li aveva spinti ad inoltrare le richieste di asilo anche all'ambasciata italiana di Kabul, che aveva iniziato a dare riscontro di ricevimento alle loro e-mail dopo il 20 giugno.
Il generale di corpo d'armata Giorgio Battisti, che in Afghanistan ha ricoperto l’incarico di capo di stato maggiore della missione ISAF dal gennaio 2013 a quello del 2014, e che ha lanciato la proposta che le associazioni combattentistiche italiane e in particolar modo quella degli alpini possano interessarsi agli afgani che arriveranno in Italia per aiutarli ad inserirsi nel nostro tessuto sociale, ci aveva confermato ancora il 28 giugno, sentite le autorità competenti, che “portiamo via da Herat tutti quelli che fanno richiesta. Sono più di mille”.
Ma c'è da dire che da quando i nostri collaboratori, tranne quei 90, hanno inviato la domanda di asilo, non hanno più ricevuto un cenno da parte del nostro governo, una mail, una parola. Un silenzio devastante in mezzo al fragore di scontri che si consumano ormai tutte le sere a pochi chilometri dalla città.
Stanno rinchiusi in casa, si muovono solo se è strettamente necessario, per la paura di essere riconosciuti e tacciati di essere dei collaborazionisti. Aspettano inchiodati davanti al computer una mail dalle nostre autorità che dica loro una cosa, solo una: che la domanda di asilo è stata accettata.
È agghiacciante. Non è umanamente accettabile lasciarli così, avviliti, angosciati, terrorizzati in questo limbo ogni giorno sempre più disperante.
Intere famiglie, tutti giovani con bambini piccoli, devono sapere cosa portare con loro, cosa lasciare, cosa vendere (o svendere...), alcuni anche la casa.
“Se il governo italiano non ha fretta, moriremo tutti” - dice A.
Una notizia datata 12 maggio, della decapitazione di un interprete, Sohail Pardis che aveva servito gli americani e non aveva ricevuto il visto per espatriare, è rimbalzata solo pochi giorni fa nelle testate e agenzie locali gettando tutti loro nel panico. “Toccherà anche a noi” hanno scritto nei loro messaggi.
“Lo sapete vero cosa ci aspetta se restiamo qui? Morte certa!” esclama esasperato W.
Le 90 domande riguardano i dipendenti di ditte che hanno lavorato all'interno di Camp Arena durante il periodo della pandemia. Personale addetto alle cucine, pulizie, ecc. Ma le altre richieste, trecento e forse più, di coloro che stanno aspettando, sono di personale logistico anche esterno, che ha contribuito alla costruzione e alla manutenzione delle strade, posa di recinzioni e cancelli, scavi e posa di filo spinato; sono fornitori di gasolio, di materiale specifico (es. gruppi elettrogeni), che hanno provveduto all'espurgo dei pozzi neri, visto che, bisogna ricordarlo, Camp Arena ha ospitato in alcuni periodi fino a quattromila e più persone che ogni giorno, ogni sera, evacuavano i loro bisogni.
Per non dimenticare gli shopkeepers, i negozianti che vendevano i famosi tappeti afgani, le manifatture locali, i ricordi che ogni nostro militare ha portato a casa. Negozianti dei PX, locali che vendono di tutto, dalle lamette per la barba ai detersivi alle giacche in gorex.
I titolari delle domande sono quasi tutti giovani, sanno tutti l'inglese, parlano in italiano e riconoscono pure le nostre inflessioni dialettali. Hanno fraternizzato con i nostri soldati. Conoscono la nostra cultura, la amano, seguono il nostro campionato di calcio e conoscono il sapore del limoncello. Durante i mondiali il tifo è stato solo per l'Italia.
Molti di loro hanno titoli di studio, lauree (in economia, giurisprudenza, ingegneria) così come le loro mogli, che fanno lavori estremamente qualificati. Hanno figli, vogliono farli studiare.
“Cosa voglio far fare alle mie figlie da grandi? Non lo so. Intanto farle studiare, poi decideranno loro. Una vuol diventare medico” - dice N e così rispondono tutti gli altri suoi colleghi delle proprie figlie. “Al momento mia moglie segue i bambini, che sono piccoli. Ma quando saranno più grandi vuole finire l'università e andare a insegnare, come ha fatto sua sorella”.
Non aspettano la manna dal cielo, hanno progetti di vita per un futuro in Italia. Vogliono lavorare. C'è chi vuole aprire un negozio, chi un'impresa, chi vuole terminare gli studi, chi vuole prendere un pezzo di terra per coltivarla.
Questo tipo di immigrazione è qualificato, per noi sarebbero dei cittadini che contribuirebbero alla crescita del nostro paese. “L'Italia ha reso un ottimo servizio all'Afghanistan per 20 anni, ha fatto tanto per noi” - dicono tutti, e di questo sono grati.
Certo, bisogna ben verificare chi entra, fanno sapere le autorità, e questo fa perdere tanto tempo. Quel tempo che adesso manca. Ma a questo punto ci si chiede se non siano stati fatti abbastanza controlli a queste persone durante tutto il periodo in cui sono stati a contatto con i nostri soldati, visto che hanno lavorato per noi cinque, dieci, quindici e persino venti anni, dal primo momento che abbiamo messo piede in Afghanistan. E allora questa sarebbe un pecca nostra... E invece in tutti questi anni "Abbiamo fatto tre colloqui ogni sei mesi" - ci dice A. "Uno nella sezione delle informazioni sulla famiglia, uno con l'Intelligence italiana e uno con il Dipartimento di Intelligence statunitense. Solo allora potevamo ricevere il nuovo pass per entrare nella base di Camp Arena. Io ho avuto 66 colloqui in 11 anni"... Cosa dobbiamo controllare ancora?
Questi collaboratori stanno perdendo ogni giorno di più la speranza di venire accolti in Italia. Questo silenzio li sta minando psicologicamente. Diamo loro quella risposta che stanno aspettando. Non possiamo trattarli così. Glielo dobbiamo.
La sicurezza dei nostri soldati è dipesa anche da loro. Visto che ogni tanto ci fregiamo di esserlo e di raccontarcelo, siamo ancora “Italiani brava gente”?
Foto: Herat Times / autore