C’era anche Bill Clinton a Pristina, capitale del Kosovo, insieme all’ex segretario di Stato Madeleine Albright e al comandante NATO di allora Wesley Clark, lo scorso 12 giugno, per i 20 anni della missione Kosovo Force KFOR. Clinton, per i kosovari, è un po’ “l’uomo della provvidenza”, insieme all’inglese Tony Blair, dopo che la Nato nel 1999 decise di bombardare Pristina e Belgrado, per mettere fine alle violenze tra le forze serbe di Slobodan Milosevic e l'esercito di liberazione del Kosovo UCK.
Partecipò anche l’Italia, presidente del Consiglio era Massimo D’Alema. Per capire l’importanza dei due ex capi di Stato qui in Kosovo, basti pensare che a Pristina ci sono una via Bill Clinton che incrocia una via Tony Blair.
Non è così per i serbi, che hanno definito l’evento commemorativo “un cinico ballo di vampiri di coloro che hanno bombardato illegalmente la Serbia 20 anni fa”. Il problema odierno del Kosovo (ex provincia autonoma della Serbia durante la Jugoslavia del padre-padrone Josip Broz Tito), si può capire anche dai due atteggiamenti differenti dei politici.
Quella del Kosovo è una situazione complessa, più di quel che potrebbe apparire a una prima lettura. In certe situazioni ci vuole sempre molto tempo ma, sarà per il territorio non troppo esteso o perché l’Alleanza Atlantica si è mossa in tempo, la missione KFOR sta dando i suoi frutti.
Il Kosovo, poco più di 10mila kq, più o meno come il nostro Abruzzo, confina con Serbia, Albania, Nord Macedonia e Montenegro. Rispettando la sovranità del Paese, KFOR monitora la situazione e si occupa di sicurezza, a 360gradi. È un po’ un ago della bilancia, insieme alla polizia kosovara, che lavora molto bene, dicono da KFOR, la cui missione per ora rimane, nel rispetto della Risoluzione ONU 1244.
In concomitanza con il ventennale di KFOR, il 13 giugno, nei pressi della città di Pec (Peje), al Camp Villaggio Italia dove è la base del Gruppo Tattico Multinazionale – Ovest (Multinational Battle Group West MNBG-W) a guida italiana, si è svolta la tradizionale cerimonia di avvicendamento del contingente italiano, stavolta tra l’8° reggimento artiglieria terrestre Pasubio al comando del colonnello Gianfranco Di Marco a quello subentrante, il 24° reggimento artiglieria terrestre Peloritani, al comando del colonnello Daniele Pisani.
All’evento era presente il comandante di KFOR, il generale di divisione Lorenzo D’Addario, insieme ad autorità militari dei Paesi Nato e civili e religiose locali. Il generale D’Addario ha sottolineato come l’avvicendarsi di contingenti permetta la continuità del lavoro sul territorio e ha insistito sull’importanza di KFOR per garantire la sicurezza nell’area.
Sono 28 le Nazioni che contribuiscono a KFOR, un totale di 3.525 militari: 659 dagli Stati Uniti, il contingente più numeroso, seguito dai 542 dell’Italia.
“Lo sforzo della NATO è principalmente nel settore della sicurezza, perché è veramente quella condizione necessaria per fare tutto il resto. Non è sufficiente, è ovvio, però la sicurezza crea quelle condizioni per cui anche EULEX (European Union Rule of Law Mission in Kosovo, è una missione dell'Unione europea con 2000 persone in loco, ndr), tutte le iniziative delle ambasciate, dell’Unione europea, delle Nazioni Unite, possono avere maggiore prospettiva di successo e di espansione. E se la NATO si concentra sulla sicurezza, secondo me, è veramente l’acqua che esce dal rubinetto.
Perché 20 anni fa il problema principale, dopo il conflitto, era l’acqua che mancava. Ed è bello che oggi ci si pensi di meno, perché nel ’99 era davvero la prima vera e unica necessità. Oggi non più, però rimane quella condizione di dover garantire la sicurezza”, mi dice il generale D’Addario al quartier generale di KFOR.
Il Kosovo sembra pacificato, ma c’è ancora fuoco sotto la cenere e KFOR è un deterrente importante quando i toni tra serbi e albanesi si alzano. Accade spesso, ma poi tutto rientra. Serbi e albanesi non si amano, ovvio, però in alcune situazioni stanno imparando a vivere di nuovo insieme E questo è un dato positivo.
Darko Dimitrijevic è un giornalista serbo. Vive a Gorazdevac, enclave serba tra i kosovari albanesi dell’ovest, la zona sotto il controllo del Multinational Battle Group West. Pare che prima della guerra qui vivessero 2mila persone, ora ce ne sono 300. Un paesino, dove però Radio Gorazdevac è una realtà unificante. Gestita da Darko e tre suoi collaboratori in una stanza del municipio, l’emittente trasmette notizie dal territorio, anche come web tv, ed è ascoltata e vista da serbi e da albanesi. “Io ho molti amici sia serbi che albanesi. Il problema sono i politici, molti dei quali hanno fatto la guerra e che fomentano ancora l’odio fra le parti”, puntualizza Darko. Mentre parliamo, nei monitor scorrono le immagini di una protesta contro rifiuti tossici interrati nell’area. Protesta che vede uniti serbi e albanesi. E questo è un bel segno.
A Pristina, Bekim Blakaj dirige l’Humanitarian Law Center del Kosovo, HLCK. Il centro ha appena inaugurato un’esposizione dedicata ai 1133 bambini uccisi o scomparsi in Kosovo dal 1998 al 2000, dopo una ricerca durata anni.
Ai muri le immagini dei campi profughi, ai lati e al centro della sala maglioni, libri, scarpe da ginnastica, quaderni, giocattoli, oggetti di una quotidianità spezzata. A leggere i nomi, vedi che ci sono state intere famiglie sterminate, decine e decine con lo stesso cognome. I responsabili del centro lo hanno fatto per i bambini kosovari, “ma stiamo parlando anche con le madri dei bambini serbi uccisi o scomparsi allo stesso modo”, dice Bekim. Da molti vengono chiamati traditori e sono stati minacciati, “ma vogliamo che tutti i crimini siano ugualmente documentati”. Anche questo è un bel segno.
La gente vuole pace e sicurezza, anche se è difficile rimarginare rancori e ferite. Quello in Kosovo non è mai stato un conflitto religioso, anche se i kosovari sono musulmani moderati o cattolici mentre i serbi sono ortodossi. I Balcani, del resto, sono sempre stati un crocevia di popoli, religioni, lingue e costumi.
Fino a poco tempo fa tutti i monasteri, pochi monaci in mezzo a migliaia di albanesi, erano controllati dai soldati. Oggi solo uno rimane presidiato da KFOR, quello di Visoki, Decani. Per padre Petar, i soldati lì sono importanti, fanno sentire i monaci al sicuro. E ricorda che il monastero, pur essendo serbo ortodosso, ha ospitato le famiglie albanesi durante la guerra.
Il monastero di Decani risale al 14esimo secolo, bello da togliere il fiato tra architettura e pittura: qui ci si inchina alla bellezza, come nell’altro splendido patrimonio Unesco, dove vivono le monache, che è il Patriarcato di Pec.
Vent’anni fa un dialogo tra le parti non era immaginabile, oggi nessuno dimentica ma in gran parte della popolazione c’è la voglia di guardare avanti, soprattutto i più giovani. Ovvio che gli attriti non manchino, da un lato la Serbia che non riconosce il Kosovo e che ha un canale privilegiato con la Russia, dall’altro l’Albania, alla cui appartenenza etnica e culturale si rifanno i kosovari. I quali, però, dicono di sentirsi kosovari e non albanesi tourt-court, anche se di bandiere blu con le 6 stelle ne vedi poche e invece in giro è pieno di quelle rosse con l’aquila a due teste.
Basta poco a generare tensione: i dazi doganali al 100% imposti dal Kosovo sui prodotti serbi e bosniaci, ad esempio, non aiutano, nonostante i tentativi di mediazione di molti attori, tra i quali l’Unione europea. Il presidente serbo Aleksandar Vucic ne chiede la rimozione, l’omologo kosovaro Hashim Thaci sarebbe favorevole a toglierli ma il premier Ramush Haradinaj insiste, affermando che verranno aboliti solo dopo il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte di Belgrado. Pare sia stata la “vendetta” per la mancata entrata del Kosovo nell’Interpol, esclusione di cui i kosovari accusano la Serbia.
La separazione anche fisica delle due etnie lo si vede bene a Mitrovica, oltre 300mila abitanti nel nord del Kosovo al confine con la Serbia. Il ponte che unisce le due sponde del fiume Ibar in realtà divide le due comunità, quella albanese a sud e la serba a nord. Doveva essere aperto alle macchine anni fa, ma ancora oggi il ponte rimane pedonale. A presidiarlo, i nostri carabinieri della Multinational Specialized Unit (MSU) inquadrata in KFOR. Due sindaci, due amministrazioni, due etnie prevalenti. Oltrepassando il ponte e passeggiando nella parte serba, piena di bar e negozi, è un tripudio di bandiere e riferimenti alla storia antica e gloriosa, come la grande statua del principe Lazar, 7,5 metri, eroe della resistenza contro i turchi, o i murales che inneggiano alla comune madre patria.
“Tra le cose che monitoriamo, c’è anche la creazione delle fake news su giornali di una parte e dall’altra, che rischiano di alimentare tensioni o cercano simpatie nell’opinione pubblica”, dicono al quartier generale di KFOR. È bastato l’arresto, a fine maggio qui a Mitrovica, da parte della polizia kosovara, di un gruppetto di malavitosi sia serbi che kosovari, che è scoppiato il finimondo. C’è stata una sparatoria, ma sarebbe rimasto un fatto circoscritto se non si fosse diffusa la notizia che Belgrado, in risposta all’arresto, stesse mobilitando l’esercito. Fake news ripresa anche da qualche testata italiana. Ero a Mitrovica in quegli stessi giorni, posso assicurarvi che Belgrado ha mosso un beato nulla.
Il Kosovo è a due passi dall’Italia, quindi dovrebbe interessarci. “Il Kosovo è sulla buona strada, è tutto sommato tranquillo ma c’è ancora del lavoro da fare. La gente vuole una pacificazione, anche se ci sono ancora troppe influenze esterne come anche dei nazionalisti interni”, è la stessa osservazione di alcuni rappresentanti NATO al quartier generale di Bruxelles come anche del comandante di KFOR gen. Lorenzo d’Addario.
Il quartiere generale di KFOR, Film City, è su una collina alla periferia di Pristina. Un luogo dove, oltre il filo spinato e i controlli all’ingresso, ogni Paese ha portato qualcosa che ricordi casa, a cominciare dalle vie dedicate alle città di questa o quella nazione.
Chiedo al comandante se nella difficoltà di pacificare le parti abbia un ruolo la criminalità organizzata.
“Qui, noi ci occupiamo soltanto di monitorare determinati fenomeni per le implicazioni che ci sono. Qui ci sono gli scambi con tutte le organizzazioni, quindi anche con quelle di Intelligence... Purtroppo, soprattutto al nord, in questa situazione che possiamo definire imperfetta, dove ci sono strutture parallele, una grande influenza della Serbia sulle province a maggioranza serba, etc, è chiaro che la criminalità sia favorita.
Sicuramente la criminalità è un altro elemento di questa situazione dove c’è ancora la componente della faziosità interetnica, c’è la componente delle influenze esterne di cui comunque i Balcani risentono molto e poi anche la componente religiosa. In realtà, questo in Kosovo non è un conflitto di religione. Qui i kosovari-albanesi sia di religione musulmana che cattolica si sentono albanesi. Punto. Qui non è un problema di religione, è il fatto che la religione ortodossa è propria dei serbi e in questo momento c’è questo tipo di nazionalismo che è fattore di contrasto.
Comunque, anche la chiave di lettura della criminalità è un altro elemento importante, ma per questa e per la lotta alla corruzione c’è EULEX, che è specifica per questo genere di cose e la comunità internazionale. Le ambasciate hanno i loro progetti, anche l’Italia è stata molto attiva in questo. Noi ci occupiamo, chiaramente, anche di sicurezza ma principalmente da questo punto di vista collaboriamo. E devo dire che c’è un grande scambio con la comunità internazionale”.
KFOR è una missione NATO e il gen. D’Addario è un comandante NATO.
E allora non si possono tirare le somme senza parlare del Patto Atlantico e di come si evolva quella che forse è l’unica realtà internazionale che si interroga sui propri errori e cerca di stare al passo con i tempi. La NATO, secondo chi scrive, non è un “carrozzone” come altre entità sovranazionali e non, ma un qualcosa di complesso e di estremamente importante, che andrebbe conosciuto prima di essere giudicato e possibilmente al di fuori degli slogan anni ’70.
“Io sono stato anche in Afghanistan, ma questa qui è una missione particolare, che ha a che fare con la nostra Europa. Ed è un’area totalmente circondata da Paesi aderenti alla NATO. Il compito della NATO è serio. Qui ti senti veramente parte di un sistema di comando e controllo solido”, osserva Lorenzo D’Addario. “E comando e controllo non vuol dire solo computer, che sono importantissimi perché se non hai i mezzi per trasmettere idee alla dovuta velocità e al tempo stesso con la dovuta classificazione, non sei in grado di prendere decisioni al momento giusto. È un sistema culturale e concettuale nato nel 1949, che prosegue e che fa della NATO, veramente, il punto di riferimento. Perché queste cose non si inventano, sono costose, sia in termini di risorse ma anche in termini di tempo, di costanza, di investimento anche umano.
Quando io trovo nel mio staff un ufficiale che proviene da un’altra nazione e che dopo una settimana fa il suo lavoro, sapendo quanto deve rendere, cosa mi deve dare e lavorando insieme agli altri, di altri Stati, che non ha mai visto, è veramente una grande cosa. Questa è veramente un’alleanza che ha una struttura di comando condivisa, dove la gente impara a conoscersi, impara ad avere gli stessi valori. La mia visione per il comando NATO, che ho distribuito ai miei e fino a livello truppa, è proprio quella: KFOR deve essere un’organizzazione dove la gente deve uscire sentendosi i migliori soldati e i migliori elementi di questa organizzazione di sicurezza condivisa che è la NATO; che comunque coinvolge anche l’Austria, la Svizzera, tutti i Paesi che vogliono cooperare.
Tra l’altro, trasciniamo anche altri Paesi perché ormai tutti sanno che noi siamo quelli di riferimento. E voglio anche dire che l’Italia è un Paese che, sia nella NATO che in altre istituzioni internazionali, dà molto e questo è riconosciuto. E l’esperienza di lavorare in ambienti multinazionali la si affronta sicuro di una cosa: quando te ne vai sei cresciuto rispetto a quando sei arrivato. Non sei superiore a nessuno, perché c’è sempre qualcuno che può insegnarti qualcosa. Partecipare a una missione internazionale e nell’ambito NATO è sicuramente un arricchimento, impari sempre qualcosa che ti sarà utile anche dopo”.
Foto: autore / KFOR