“In merito alla risoluzione del conflitto in Afghanistan, gli attori regionali sono molteplici, con agende e interessi variegati, in alcuni casi anche divergenti tra loro. Continue sono le pressioni diplomatiche nei confronti di alcuni Paesi, dove presumibilmente si nascondono estremisti responsabili di vari attentati, perché facciano i dovuti passi per assicurare la pace in tutta la regione. Sebbene le dichiarazioni ufficiali dei rappresentanti di alcuni governi supportino il processo di pacificazione, alla luce dei risultati ottenuti non si rilevano progressi concreti. Di contro altri Paesi, sempre lungo i confini, appoggiano il processo di pace e promuovono lo sviluppo economico.”
Il generale di brigata Sergio Cardea è il capo della Strategic Engagement Branch, inserita nell’ambito del direttorato Strategy and Policy della missione “Resolute Support” a Kabul. Paracadutista, ex comandante del 183° reggimento paracadutisti “Nembo”, l’ufficiale ha una lunga esperienza di teatri operativi a partire dal 1993 con la Somalia di “Restore Hope”. Poi Yugoslavia, Albania, Timor est, Kosovo... E tanto Afghanistan, fin da Enduring Freedom e fin da quando era capitano e dove è tornato più volte nell'ambito della missione Isaf ricoprendo vari incarichi, non ultimo il comando del 5° battaglione paracadutisti “El Alamein” - 186° reggimento paracadutisti “Folgore” di Siena, nel Gulistan talebano nel 2011.
Il generale Sergio Cardea è un soldato italiano di cui andare fieri. Tra i riconoscimenti ricevuti, un encomio solenne del capo di SME per l’operazione “Stabilise”, una Usa Commendation Medal per l’incarico svolto di Operational Mentor Liaison Team con l’esercito afghano, una croce di bronzo al valore dell’Esercito, nel 2012, per i risultati conseguiti dal 5 battaglione “El Alamein” in Afghanistan.
A Kabul si occupa delle relazioni “military to military”, i rapporti a livello militare delle forze di sicurezza afghane con i Paesi confinanti. Il suo dipartimento, nel quale opera sotto la sua direzione personale statunitense, montenegrino e britannico, analizza le dinamiche regionali che interessano il Paese e soprintende alla risoluzione di possibili dispute lungo i confini, in particolare quello pakistano. Perché la pacificazione dell’Afghanistan corre anche attraverso la stabilità dei permeabili confini...
Generale Cardea, come si svolge il lavoro di Strategic Engagement Branch?
Il mio lavoro consiste nel promuovere e mantenere rapporti a livello militare delle forze di sicurezza afghane con i Paesi confinanti, attraverso continui incontri per discutere le varie problematiche di sicurezza, condividere informazioni di natura operativa e coordinare gli sforzi. Con il termine “Engagement”, pertanto, si intende ogni forma di ingaggio non cinetico attraverso i colloqui e il confronto tra le parti. Inoltre, un’altra sezione del mio dipartimento analizza eventi in ottica strategica, che potenzialmente possano avere un qualunque effetto sulla nostra area di operazione. In particolare, il focus è rivolto a tutto ciò che caratterizza il dominio politico, militare, economico, diplomatico e sociale per comprendere le dinamiche e supportare le decisioni della nostra catena di comando.
Le linee da adottare come vengono definite?
Nell’ambito di RS, l’elemento di raccordo con il governo afgano è rappresentato dal NATO Senior Civilian Representative, l’ambasciatore Cornelius Zimmermann, con il quale ci confrontiamo e coordiniamo quotidianamente, per avere una chiave di lettura dal punto di vista politico. L’ambasciatore Zimmerman è l’equivalente, a livello civile, del generale Miller (comandante di Resolute Support, ndr).
Chi tra i Paesi confinanti supporta apertamente il processo di pace dell’Afghanistan?
Sicuramente un grande supporto viene dai Paesi lungo il confine settentrionale, Turkmenistan, Tagikistan, Uzbekistan, che favoriscono non solo il processo di pace ma anche lo sviluppo economico. Sono in via di realizzazione progetti di altissimo rilievo, come il gasdotto TAPI che parte dal Turkmenistan, attraversa tutto l’Afghanistan, il Pakistan e termina in India, che, quando sarà terminato, produrrà un introito annuo di 400milioni di dollari. Importante è anche l’elettrodotto CASA (Central Asia South Asia), finanziato dalle Repubbliche centroasiatiche, che porterà 18 megawatt di energia elettrica in Afghanistan e quindi faciliterà lo sviluppo economico del nord del Paese. E ci sono dei programmi di sviluppo della rete ferroviaria per incrementare gli scambi commerciali, in particolare il collegamento dal Turkmenistan alla regione di Herat e un altro ramo che invece collegherà il Tagikistan con Mazar i Sharif.
Un altro Stato che sicuramente supporta lo sviluppo dell’Afghanistan ed è tra i principali “international donors” è l’India, che sta investendo ingenti somme di denaro e realizzando numerosi progetti. Tra l’altro, è stato aperto anche un corridoio aereo per consentire il commercio dei prodotti afghani direttamente in India, che potrebbe portare ad avere un indotto di circa un miliardo di Usd.
Invece, come si sta muovendo il Pakistan?
Nel passato, il Pakistan ha sicuramente offerto rifugio ai Mujaideen che combattevano contro i sovietici. Attualmente gli Stati Uniti accusano apertamente il Pakistan di non aver fatto abbastanza per eliminare tutti i violenti estremisti presenti sul proprio territorio. Come ben ricorderà, a gennaio il presidente americano Trump ha chiesto al Pakistan azioni decisive contro il terrorismo e sono state intraprese una serie di iniziative diplomatiche ed economiche.: gli Usa hanno tagliato i fondi al Paese, tra i 700milioni e il miliardo di dollari prima a 150 milioni adesso.
D’altro canto, è noto che le forze di sicurezza pakistane, a seguito di violenti attentati che hanno scosso il Paese, hanno effettuato una serie di operazioni militari nelle province lungo il confine, in particolare nelle Federal Administrated Area (FATA) e nel Belucistan per eliminare alcune organizzazioni terroristi
Tornando al problema del confine tra Afghanistan e Pakistan, il generale Miller, prima di insediarsi a capo di RS, ha dichiarato che in Pakistan ci sono dei terroristi nascosti che devono uscire fuori…
I rappresentanti del governo pakistano hanno ribadito il loro impegno alla lotta contro ogni forma di terrorismo e asseriscono di aver eliminato ogni forma di presenza organizzata, i cosiddetti “santuari”, dal proprio territorio. Tuttavia, la percezione nell’ambito della comunità internazionale è che, nonostante le iniziative militari e l’elevato tributo di sangue versato da civili e forze di scurezza, ancora ci sia molto da lavorare in questo senso.
Su ammissioni degli stessi pakistani, non si esclude che tra i 3milioni di rifugiati afghani in Pakistan, si nascondano molti terroristi o violenti estremisti e che alcuni di loro godano anche del supporto di locali “stakeholder”.
Oggi gli afghani accusano i pakistani di ospitare i terroristi, questi ultimi accusano i primi di non controllare i confini. Accuse reciproche, però le due parti si stanno incontrando e finalmente si parlano, proprio dentro la missione RS, dove abbiamo una delegazione delle forze di sicurezza afghane e una di forze pakistane con le quali abbiamo un rapporto molto cordiale e sincero di effettiva collaborazione, per raggiungere il fine comune di sicurezza, pace e sviluppo. Con loro ci riuniamo regolarmente per condividere informazioni e risolvere tutte le eventuali problematiche che si determinano lungo il confine.
Dopo 17 anni, con il lavoro svolto da Isaf prima e Resolute Support ora, a che punto è la pace? Perché pacificare l’Afghanistan vuol dire, anche, stabilizzare i confini…
È così. Ci sono dei progetti e i segnali sono incoraggianti. Durante la scorsa festività della fine del Ramadan, i talebani hanno accettato la tregua proposta dal presidente Ashraf Ghani, dimostrando di essere un movimento unitario e la volontà di voler entrare nei colloqui di pace. È un piccolo passo, ma anche un segnale molto importante. E, sicuramente, la stabilità ai confini è determinante anche per la stabilità nel Paese. Ci sono una serie di iniziative politiche, diplomatiche ed economiche per fare in modo che la situazione lungo i confini possa diventare più stabile e pacifica.
Ritornando ancora al Pakistan, dal 18 agosto, l’ex campione di cricket Imran Khan (foto) è stato nominato primo ministro. Nel corso della sua campagna elettorale si è proposto come alternativa ai partiti tradizionali, promuovendo i valori di trasparenza e onestà e ponendo tra i suoi principali obiettivi la stabilità e lo sviluppo del Paese, anche attraverso la risoluzione delle questioni di confine sia con l’India che con l’Afghanistan. Dal punto di vista militare, i pakistani, ultimamente, hanno deciso di rafforzare con altri 60mila uomini i corpi d’armata schierati lungo il confine per condurre operazioni antiterrorismo e di costruire ulteriori recinzioni lungo i 2.600 chilometri della Durand Line, (linea di confine tra i due Paesi non riconosciuta dai pashtun, ndr) per evitare il passaggio incontrollato di elementi ostili. Anche questi sono segnali incoraggianti. Ora dobbiamo attendere e vedere quanto siano realmente efficaci e soprattutto capire come giocherà questa nuova partita il primo ministro Imran Khan.
Tra i confini da monitorare, c’è anche l’Iran, che confina con la regione di Herat (dove è il nostro contingente italiano) e a cui gli Usa applicheranno altre sanzioni?
Sì, l’attenzione è rivolta anche a tutto quello che succede in Iran, senza trascurare possibili effetti di secondo e terzo ordine. Dal prossimo novembre, le ulteriori sanzioni Usa che colpiranno l’Iran avranno potenziali ripercussioni in Afghanistan. Lo stesso presidente Ghani ha chiesto che l’Afghanistan sia esentato dall’applicazione delle sanzioni nei confronti dell’Iran, che comunque costituisce un grosso partner economico. Attualmente in Iran la situazione sociale è molto particolare e un numero elevato di profughi afghani, a causa della crisi economica, ha fatto ritorno in Patria andando ad aggravare il già precario quadro socio economico. È opportuno ricordare che, in questo periodo, l’Afghanistan è interessato anche da una devastante siccità che sta compromettendo i raccolti di gran parte del Paese, aggravando di fatto una situazione già di per se complessa.
Un altro attore tutt’altro che secondario è la Cina, che sta penetrando sempre più in Afghanistan, con infrastrutture e con il progetto della nuova Via della Seta. Ed è ovviamente interessata alla stabilità dell’area…
La Cina sta costruendo la Belt and Road Initiative, per il commercio di tutte le merci che esporta. Sta investendo in numerosi Paesi e tra i progetti c’è, in Pakistan, il China Pakistan Economic Corridor, che permette alle merci che partono dalla Cina di attraversare tutto il Pakistan e giungere al porto di Gwadar, dove vengono imbarcate sulle navi e inviate in Europa. Ovviamente, associati a questo, ci sono numerosi investimenti infrastrutturali da parte dei cinesi per consentire lo sviluppo dell’area, tra cui strade, reti elettriche, centrali, etc. In particolare, la Cina sta investendo in Belucistan, zona alquanto depressa che sta già risentendo positivamente di questi influssi economici. E, per quanto riguarda l’Afghanistan, la Cina sta esplorando la possibilità di poter utilizzare una via attraverso il Paese come alternativa a quella pakistana. Il requisito fondamentale affinché si realizzi il corridoio economico è la stabilità dell’area. Insomma, la Cina è un elemento favorevole nel quadro generale geopolitico, poiché si sta’ impegnando a tutti i livelli perché in Afghanistan e in Pakistan non ci sia anarchia e violenza.
Del resto la Cina ha il problema con gli Uigur…
Esattamente. E quindi i cinesi sono interessati ad eliminare il terrorismo anche lungo le loro aree di confine e isolare gli estremisti più violenti.
L’Afghanistan è la terra del “grande Gioco”, da sempre, dove tutti hanno un interesse strategico, politico, economico…
Sicuramente l’Afghanistan è il crocevia di tutti i maggiori traffici che passano lungo la direttrice terreste. Basti pensare che l’Afghanistan confina a nord con le Repubbliche centroasiatiche, che ancora oggi risentono dell’influenza della Russia, confina ad est, per circa 70 km, con la Cina, nella regione del Badashan, a est e a sud con il Pakistan e a ovest con l’Iran. Risulta evidente, che nell’agenda politica dei principali attori regionali è fondamentale poter esercitare la propria influenza in Afghanistan.
A dimostrazione di questo, vorrei ricordare che lo scorso 4 settembre, la Russia ha convocato un meeting per avviare i colloqui di pace tra il governo afghano e i rappresentanti politici del movimento talebano, alla presenza di diplomatici russi, cinesi, pakistani, e statunitensi. Il meeting è stato rinviato su richiesta del presidente Ghani, il quale ha chiesto di incontrare tutti i rappresentanti diplomatici prima di sedere al tavolo delle trattative con i talebani.
Altro grosso attore regionale è la Russia…
La Russia aspira ad essere un attore fondamentale in questo Teatro. E sicuramente vuole emergere come elemento di mediazione tra il governo afghano e i talebani, ponendosi anche come antagonista rispetto alla NATO. Tra le priorità del presidente Putin, c’è sicuramente il contrasto all’espansione dello Stato islamico. Come vede, ci sono tanti fattori che si legano e per riuscire a comprendere bene tutte le dinamiche, bisogna cercare di correlarle e leggerle tutte quante insieme. Non abbiamo due contendenti o il bianco e il nero, ma abbiamo tutta la scala dell’iride, con diversi attori regionali che sono in grado di influenzare sia una parte che l’altra, secondo le proprie agende politiche nazionali.
La nuova generazione dei talebani pare voglia uscire dall’illegalità e che il governo afghano sia disponibile ad ascoltarli. Come Engagement Strategic, un domani parlerete anche con loro?
Se il processo di riconciliazione andrà a buon fine, non escludo che il Comando RS possa interagire con i talebani. Il passo successivo sarà il reintegro nell’ambito del tessuto socio economico, per scongiurare il pericolo di ripresa delle ostilità. Nel corso del breve periodo di tregua alla fine del Ramadan, abbiamo assistito in molte città afgane a situazioni che aprono grosse speranze per il futuro: molti combattenti talebani, tra cui alcuni anche molto giovani, hanno invaso pacificamente le città, deponendo le armi e unendosi alla popolazione in manifestazioni di festa. Abbiamo visto giovani guerrieri talebani abbracciarsi, farsi selfie con i militari dell’Afghan National Security Forces e mangiare insieme gelati.
È opinione diffusa che queste manifestazioni abbiano evidenziato una possibile frattura tra le giovani generazioni, quelli nati a cavallo del 2001, che sarebbero favorevoli al processo di riconciliazione e quelli che invece sono passati attraverso l’invasione russa, il successivo periodo di anarchia con il dominio dei vari warlord e l’egemonia talebana nel 1994-2001, che vorrebbero continuare la lotta. Quello che li tiene uniti è l’ideologia che li spinge a combattere contro il governo afghano, ma ultimamente hanno subìto condanne da parte dei religiosi islamici, in Indonesia e in Arabia Saudita, contro tutti coloro che uccidono civili inermi e conducono una guerra ingiusta. Questo ha sicuramente messo in discussione la legittimità della loro guerra.
Alle fatwe si sono aggiunte una serie di manifestazioni nate spontaneamente da parte di cittadini afghani, pesantemente provati da decenni di lotta. Nel primo semestre del 2018, fonti ufficiali UN riportano che in Afghanistan 1700 civili hanno perso la vita per episodi di violenza legati al terrorismo. Nel pieno del Ramadan, a giugno, un gruppo di afghani, dopo l’ennesimo sanguinoso attentato nel sud del Paese, ha percorso circa 700 km a piedi, senza toccare cibo e acqua durante il giorno, per raggiungere Kabul e chiedere al governo afghano e alla comunità internazionale di porre fine a questo massacro. Questo gruppo è cresciuto man mano che si muoveva, 3 uomini dall’Elmand che sono diventati oltre 700 a Kabul. È uno dei tanti segnali che la popolazione è stanca e vuole pace, stabilità e certezze.
(foto: autore / U.S. DoD / MoD People's Republic of China / Cremlino / Resolute Support)