“Questa esperienza in Afghanistan è una sfida professionale ed umana complessa, unica, certamente difficile, ma soprattutto entusiasmante. Per i nostri ufficiali, sottufficiali e graduati è una vera, grande “palestra di professionalità”.
Il generale di Divisione Massimo Panizzi é responsabile della Divisione Supporti della missione “Resolute Support, Divisione che comprende le attività logistiche, la gestione delle basi NATO (strategiche e tattiche) e degli aeroporti, le comunicazioni e la cyber defense, la gestione del personale della missione, gli aspetti finanziari e sanitari e il monitoraggio delle relazioni fra Afghanistan e Forze NATO. Da lui dipendono circa 800 persone (militari e civili) di 21 Nazioni. Il generale rappresenta anche, per conto dello stato maggiore della Difesa, tutti i militari italiani, garantendo fra l’altro che il loro mandato nazionale venga rispettato.
Generale Panizzi, cosa risponde a chi le chiede perché siamo in Afghanistan?
Rispondo che la NATO è qui per addestrare, consigliare e assistere le Forze di Sicurezza afghane e le Istituzioni ad esse collegate. Recentemente, al summit di Bruxelles, l’Alleanza Atlantica ha confermato il suo impegno fino al 2024. Un sostegno determinato - come evoca il nome della missione, Resolute Support - e indispensabile per le speranze di pace di un popolo sfortunato, che è stanco di vivere nella precarietà, dopo decenni di guerra. Questa è la missione a guida NATO che per complessità, impegno della comunità internazionale, varietà e numero di attori coinvolti e per interessi in gioco, è la più imponente.
Le notizie che ci giungono sono di una situazione che sembra peggiorare. Ci sono speranze di miglioramento?
Al di là delle notizie drammatiche che i media riportano, al nostro livello si percepiscono alcuni importanti indizi di cambiamento: il recente “cessate il fuoco” ha generato un vero e proprio dibattito interno fra le varie anime del tessuto sociale e politico afghano. Le Forze di Sicurezza migliorano i loro standard operativi, c’è una nuova consapevolezza. Inizia ad esserci la visione di un futuro diverso. Certo, si tratta di un progetto ambizioso, di un cammino arduo, soprattutto lungo. Non si creano istituzioni solide dall’oggi al domani, specie in un contesto complesso caratterizzato dal terrorismo. Non è un caso che la comunità internazionale (ben 41 Paesi) sia fortemente impegnata in questa sfida, che non è soltanto di carattere militare, ma anche diplomatica e sociale.
Ma sembra che attualmente l’Afghanistan sia ingovernabile…
Non è esatto. C’è un presidente eletto, c’è un governo di unità nazionale con i propri ministri, c’è, in altre parole, una struttura politico-amministrativa regolarmente in carica e che cerca di rendere efficaci le giovani istituzioni afghane, le province e i distretti. Ci sono problemi enormi, fra i quali la corruzione e, soprattutto, la presenza simultanea di terrorismo di varie estrazioni e della criminalità.
Qualcuno ha detto che ci vorrebbe un “Mandela per l’Afghanistan”, altri un Piano Marshall e imprenditori di altissimo livello per cambiare lo status quo. Sono idee e teorie interessanti, ma vanno sempre adattate alla realtà. Chi ha letto il libro “The Great Game” di Peter Hopkirk, ben comprende il perché della complessità di questa terra.
Ho conosciuto personalmente alcuni giovani leader afgani, che hanno idee innovative e sono ottimisti. Col tempo potranno trasformare questo Paese, se avranno reali capacità operative e una chiara visione dell’avvenire della loro terra. E poi ci sono le nuove generazioni (l’età media della popolazione è di 20 anni) che spingono per un futuro diverso. Questo Paese ha bisogno di trovare una sua identità e di sollevarsi dal baratro. L’Afghanistan, poi, è una terra ricca di bellezze naturali straordinarie. Da Alpino, non posso non ammirare le montagne dell’Hindu Kush quando, in occasione dei nostri viaggi in aereo o in elicottero, possiamo guardarle da lontano. Il sogno è che un giorno divengano accessibili a tutti gli appassionati. Per non parlare dei siti archeologici: la loro valorizzazione potrebbe costituire un investimento in tutti i sensi.
E se la NATO se ne andasse, cosa accadrebbe?
I 29 Paesi membri dell’Alleanza hanno da poco confermato il loro supporto fino al 2024. Un chiaro segno di continuità e di impegno serio e, appunto, “risoluto”. A me non piacciono le domande ipotetiche, ma le risponderò con una metafora. Provi a pensare ad una persona che comincia a camminare sulle proprie gambe, con l’aiuto di una stampella: lei improvvisamente gliela toglie e le dice “Ora fai da solo”. Le lascio immaginare le conseguenze…In poco tempo, molto probabilmente, si potrebbe tornare a una situazione ancora peggiore rispetto a quella iniziale, che vanificherebbe anni di sforzi e anche il sacrificio di tanti militari (nostri, della coalizione e afghani). Aggiungo che ho potuto riscontrare quanto la presenza occidentale sia percepita positivamente, soprattutto adesso, dalla popolazione. Ma è chiaro a tutti che il futuro dell’Afghanistan è e deve restare nelle mani degli afghani.
Cosa l’ha colpita maggiormente, in negativo, di questa esperienza?
La violenza indiscriminata, cieca, contro gli studenti di una scuola, rivolta a colpire non soltanto giovani innocenti, ma anche l’idea di futuro e progresso. Immagini questa scena: i suoi figli sono a scuola, entusiasti, pensano al futuro e lei aspetta con ansia il loro rientro a casa. Ma non rientreranno più. Qualcuno li ha fatti saltare in aria e non si trovano che i loro poveri resti. L’orrore… la negazione di tutto, dell’idea stessa della vita e delle conquiste del genere umano. C’è chi vive per uccidere. Anche questo accade in Afghanistan, è avvenuto lo scorso mese di agosto e risponde a un’assurda ideologia: l’annientamento dell’essere umano attraverso il terrore. Colpire una scuola sfugge ad ogni logica. Non si può restare indifferenti, né lasciare che questa terra diventi il covo indisturbato di terroristi. Noi addestriamo le Forze di Sicurezza afghane anche perché episodi come questo non accadano più.
E cosa l’ha invece colpita in positivo?
Mi hanno colpito il valore, il sacrificio e la “resilienza” dei soldati afghani che si battono quotidianamente per la loro terra. L’Esercito migliora, anche grazie ad importanti riforme di rinnovamento generazionale e di sviluppo della leadership. Crescono le loro Forze Speciali e anche l’Aeronautica fa progressi importanti. Ci vorranno tempo, costanza e pazienza, ma il coraggio che dimostrano quotidianamente è straordinario. Combattono e muoiono per il loro Paese. Poi, mi hanno stupito la forza morale e la fede di alcune suore, a Kabul, che coraggiosamente e ostinatamente continuano ad assistere i bambini più bisognosi abbandonati dalle famiglie. C’è un’associazione italiana, qui, che fa autentici miracoli.
Cosa dicono di noi italiani i comandanti alleati?
In oltre 4 mesi di missione ho avuto modo, più volte, di verificare personalmente la grande considerazione che i comandanti della Coalizione hanno per noi. Non è una novità, ho potuto attestarlo anche in operazioni precedenti. Ma dove mi trovo l’osservatorio è talmente privilegiato che ti accorgi se i complimenti sono di circostanza o corrispondono a reali capacità e risultati. Non è stato per caso che il generale Nicholson, prima di andarsene, sia voluto passare a salutarci. Non è un caso se il generale Miller (foto), suo successore, ha voluto commemorare la data dell’11 settembre – una ferita sempre dolorosamente aperta per gli amici americani – a Herat, insieme al nostro Contingente, e che sia rimasto colpito dalle parole del nostro ministro della Difesa. Non è casuale, credo, che il gen. Dunford, capo di stato maggiore della Difesa americano, al termine della cerimonia settimanale in onore ai Caduti, mi abbia chiesto di poter salutare il nostro Contingente di Kabul, ricordandoci cosa rappresenta la nostra presenza in questa terra. Per non parlare del segretario alla Difesa Mattis e della presidente della Croazia, che mi hanno pregato di salutare sinceramente tutti i nostri militari.
Mi creda, non sono attestati casuali o di circostanza. Le nostre Forze Armate, in tutti questi anni, hanno indiscutibilmente saputo realizzare qualcosa di straordinario e i risultati sono così evidenti che non possono essere taciuti Un capitolo decisamente positivo, nella storia di un Paese il cui passato è intriso di tragedie e tristezza. Il Tricolore che sventola a Herat e a Kabul è parte dell’Afghanistan e della storia di questo Paese martoriato.
Cosa apprezzano degli italiani i nostri partner?
Credo sia quel mix di professionalità e di flessibilità (ovvero la capacità di adattamento ad ogni situazione), unitamente alla consueta generosità. Per quanto riguarda la professionalità, è certamente il risultato del lavoro svolto pazientemente, negli anni, dallo stato maggiore Difesa e dagli stati maggiori di Forza Armata, che hanno puntato molto sulla modernizzazione dello strumento militare. La partecipazione costante ad operazioni come questa – un vero banco di prova per i nostri ufficiali, sottufficiali e graduati a tutti i livelli - ha contribuito decisamente al conseguimento di questo risultato. I nostri comandanti che si sono alternati negli anni, a Herat come a Kabul, a detta dei nostri alleati, hanno dimostrato leadership e grande affidabilità.
Sull’altro aspetto, la flessibilità e la generosità, credo si tratti di qualità tipicamente italiane: l’adattabilità a situazioni nuove, la capacità di apprendere, il saper trovare sempre soluzioni creative ed efficaci, anche in carenza di risorse. Ci viene riconosciuta anche l’arte di mediare e di riuscire a mettere intorno ad un tavolo interlocutori locali non sempre facili e farli dialogare. Questo fa parte del nostro patrimonio genetico-professionale.
Come si vive a Kabul, in questo ambiente, sotto minaccia di attacchi?
Siamo consapevoli dei rischi e adottiamo tutte le precauzioni e predisposizioni previste. Siamo soldati, fa parte del nostro mestiere.
L’ambiente di lavoro, poi, è stimolante, ogni giorno è una sfida nuova a cercare il modo migliore di supportare efficacemente gli afghani. Gli italiani del Quartier Generale – di tutte le Forze Armate - sono impiegati in diverse discipline: logistica, sistemi di comunicazione operativi, sicurezza, sviluppo dell’Esercito, della Polizia e dell’Aviazione afghane, pianificazione, stabilizzazione, Comunicazione Strategica, relazioni con le Forze Armate pakistane, oltre allo sviluppo di progetti e procedure medico-sanitarie per addestrare i militari afghani ad assistere i feriti in combattimento.
Come è lavorare in un ambiente così multinazionale?
La multinazionalità, secondo me, è il vero valore aggiunto di questa missione. Ferma restando la prevalenza della componente statunitense, la presenza di rappresentanti qualificati – a tutti i livelli – di così tante nazioni, è un continuo stimolo all’apprendimento di culture e procedure diverse. Ho alle mie dipendenze dirette un generale e 6 colonnelli americani, oltre a 2 olandesi. Ma all’interno delle rispettive branche ho anche personale (militare e civile) inglese, macedone, georgiano, bulgaro, croato, tedesco, ceco, slovacco, turco, greco, belga, portoghese, spagnolo, polacco, ucraino, rumeno, australiano, bosniaco, estone, lettone e lituano. Una ricchezza inestimabile in termini di cultura professionale e umana.
È un continuo esercizio all’ascolto dell’altro e – direi – al rispetto reciproco. Lavorare in operazioni in un ambiente internazionale e multinazionale è uno stimolo a dare il meglio di sé (perché rappresenti la tua Nazione) e, nello stesso tempo, ti obbliga a rapportarti nel modo migliore con l’altro, tutti uniti dall’obiettivo di portare a termine la nostra comune missione. Come recita il motto “Many Nations, One Mission”.
E non esistono problemi?
I problemi riguardano esclusivamente la complessità delle attività che sviluppiamo, non il funzionamento interno. Al contrario, è la nostra diversità a far sì che si trovino sempre soluzioni diverse e ragionate. C’è un clima di grande collaborazione.
Il fatto poi di utilizzare l’inglese quale lingua di lavoro obbliga tutti ad attenersi ad un linguaggio tecnico, essenziale, eliminando il superfluo.
Al di fuori delle relazioni lavorative, inoltre, abbiamo organizzato corsi di lingua inglese per chi vuole perfezionarla. E anche ideato corsi di Italiano per gli stranieri con oltre 50 adesioni. Senza contare quanto di buono emerge dallo scambio di esperienze e dall’osservazione degli altri contingenti.
Quale iniziativa delle Forze Armate straniere le è piaciuta particolarmente?
Da anni negli USA, in Gran Bretagna, in Germania, esiste un canale televisivo nazionale dedicato ai militari e anche alle tematiche legate alla Difesa. Da un lato questo servizio pubblico dà supporto, informazione e visibilità ai militari in missione, dall’altro contribuisce ad accrescere la cultura della sicurezza nei cittadini. Non è cosa da poco. Le nostre Forze Armate hanno fatto progressi straordinari nella comunicazione istituzionale. Un canale televisivo completerebbe in modo efficacissimo l’informazione sui temi della Difesa. La sicurezza è un bene supremo e comune per ogni Stato: educare alla sicurezza è importante. E la televisione è il mezzo di comunicazione per eccellenza.
L’immagine della Missione che le resta più impressa?
Il momento di raccoglimento, tutti i venerdì mattina, di fronte alle Bandiere e al monumento ai Caduti: è l’immagine del senso dell’Onore.
(foto: U.S. Air Force / Nato /Al Jazeera / Resolute Support)