"Ringrazio le Forze Armate italiane. I soldati italiani portano non solo la loro tradizione, che per secoli ha formato le nostre culture partendo dalle legioni romane. E voglio dirvi, prima di tutto, GRAZIE! Siete stati di un aiuto estremo. Voi rappresentate il meglio degli ufficiali con cui ho avuto il piacere di lavorare e, certamente, di tutti i soldati che hanno servito qui. Voglio ringraziarvi perché siete stati vicini al mio Paese in ogni momento di bisogno. Anche dopo l’11 settembre, siete stati i primi a stare dalla nostra parte, siete sempre stati con noi, fin dall’inizio. Continuate a farlo anche quando non è facile. Come generale NATO, vi posso dire che è stato un onore comandare i soldati italiani. Ho avuto la possibilità di lavorare con il vostro Esercito in molte occasioni. A livello personale, io e mia moglie, amiamo l’Italia, ci piace la cultura, il cibo e la moda italiani. Anche la vostra musica è bellissima e parla all’anima in un modo straordinario. Quando, con la mia signora, vado in vacanza, scegliamo l’Italia. Per festeggiare il mio 60esimo compleanno, abbiamo voluto percorrere 60 miglia in Toscana. E abbiamo visitato Napoli, Pompei, Positano, Roma...
Questa è la mia ultima missione, dopodiché me ne torno a casa, mi ritirerò. Ho pensato molto a questo, per me è stato il più bel lavoro quello di comandare soldati di 41 Nazioni. Ora che mi ritiro, non avrò solo l’Afghanistan nel mio cuore ma anche l’Italia e i soldati italiani. Non vi ringrazierò mai abbastanza. E non ho parole per dirvi che onore sia stato per me servire come soldato non solo della mia Nazione ma anche come soldato della NATO".
Sono le parole del generale John Nicholson, comandante uscente delle forze militari statunitensi in Afghanistan e dell’Operazione Resolute Support della NATO (sostituito il 2 settembre dal generale Austin Scott Miller, ndr) a Kabul.
Siamo qui, nel cuore della missione Resolute Support, nella parte dell’Ita Nse (Italian Nation Support Element), dove è stata organizzata una cerimonia di arrivederci per Nicholson, cosa che il generale ha concesso solo agli italiani. Il che la dice lunga sui rapporti che intercorrono tra i nostri due Paesi nell’ambito della missione NATO e della stima reciproca, come ha evidenziato il generale di divisione Massimo Panizzi, comandante per la NATO della Divisione Supporti di Resolute Support e Italian Senior National Representative, perché l’ufficiale più anziano di grado nel supporto italiano.
In un incontro breve ma significante, il generale Nicholson è stato accolto dalle note di “Nessun dorma” cantato da un giovane tenore afghano che lo ha commosso. “Ci tenevo che ci fosse un tenore afghano, perché la musica è un’espressione della cultura e perché in Afghanistan c’è anche quello, quindi c’è la speranza. Ed è importante!” - spiega il generale Panizzi. "Si pensa che l’Afghanistan sia tutto combattimenti e agguati, invece c’è anche un mondo di giovani che pensa alla cultura, che frequenta l’Università o il conservatorio. C’è un mondo che comunque va avanti”.
Il generale di divisione Massimo Panizzi, alpino, ex comandante della brigata alpina Taurinense, ha voluto regalare a Nicholson il cappello con la penna, insieme a un quadro e un libro dedicati alla montagna… “Noi, come soldati italiani, abbiamo sentito la Sua stima e la Sua amicizia. E La voglio ringraziare a nome di tutti, da parte mia e dei militari italiani (soldati, marinai, aviatori e carabinieri). Per il Suo costante supporto nei confronti delle truppe italiane stanziate in Afghanistan e il suo altissimo senso del dovere e di solidarietà, il presidente dell’Associazione Nazionale degli Alpini Le offre il simbolo dello spirito alpino, il loro Cappello”, ha sottolineato Panizzi nel leggere la motivazione.
Il generale di brigata Sergio Cardea, paracadutista, ex comandante del 183º reggimento paracadutisti Nembo, ha insignito il comandante Nicholson del brevetto di paracadutismo militare italiano a titolo d’onore, appuntandogli le ali sul petto (e consegnandogli l’attestato firmato dal comandante della brigata Folgore, generale Rodolfo Sganga), con varie motivazioni, tra le quali “…Il gen. Nicholson è un soldato straordinario che non solo ha servito per molti anni in truppe aviotrasportate ma come comandante della 82ma divisione paracadutisti, ha creato la comunità internazionale Airborne, attraverso la quale molte nazioni hanno avuto l'opportunità di condividere esperienze operative, migliorare l'interoperabilità e partecipare a storiche esercitazioni come Swift Response. Per questo motivo, per il forte attaccamento dimostrato alle unità della Folgore, per il senso di cameratismo e l'impegno per i valori etici della truppa aviotrasportata …è autorizzato a portare il distintivo d’argento dei paracadutisti italiani…”.
Lo stesso Nicholson è un paracadutista. “C’è un posto speciale nel mio cuore per i paracadutisti della Folgore… Io, come comandante, ho avuto l’occasione di lavorare con la brigata Folgore …per questo voglio ringraziarvi, per essere gli ultimi di una lunga schiera di ufficiali di alto valore. Questo è un grande onore e spero di ringraziare il comandante di persona. Essere riconosciuto dagli Alpini e dalla Folgore non posso dirvi quanto significhi per un soldato come me. Grazie ancora!”, la conclusione del generale Nicholson.
Nicholson ama l’Italia, dove viene spesso per impegni lavorativi e anche in vacanza. Soprattutto, da buon militare che tiene ai valori dell’onore e della parola data e con quell’umiltà che hanno solo i grandi uomini, che potrebbero tirarsela e non lo fanno, non ha mai mancato di esprimere apprezzamento per il lavoro svolto dai nostri militari interforze a Kabul ed a Herat. E questo ce lo riconoscono tutti, non solo gli americani.
Kabul è il cuore ma anche la testa non solo di tutta l’operazione internazionale della NATO Resolute Support ma anche della missione italiana interforze, nel contesto di RS, qui come a Herat. E come accade in ogni missione, ogni Paese si porta dietro un pezzo di Patria e di vita civile, noi nei locali dell’Ita Nse dove parla il tricolore e la nostra lingua, vicino all’Nse spagnolo, più in là la sezione “Gender” dove le signore, per compagnia, tengono dei teneri micetti nella cesta.
La missione è cambiata
Resolute Support, dove partecipano 41 Nazioni, dal 1 gennaio 2015 ha sostituito l’operazione ISAF (International Security Assistance Force) e oggi è dedicata ad addestramento, consulenza e assistenza dell’Esercito e delle Forze di sicurezza afghane, cercando di portarle a una sempre maggiore autonomia operativa. Gli italiani, in particolare, fanno da advisors assistendo e fornendo consulenza anche al personale afghano dei comandi e dei ministeri a Kabul. Tutto è ovviamente pianificato prima, per quel che ci riguarda tramite il reparto J5, l’Advisor Team a guida italiana, che come detto lavora in sinergia con le componenti afghane, in primis il ministero della Difesa, che dà le direttive per quanto riguarda la sicurezza, mentre il capo di stato maggiore traduce gli indirizzi politici e di sicurezza in direttive che possano essere applicate dalle proprie unità militari ed è responsabile delle capacità della Forza armata. Tutto questo rientra in un più ampio accordo tra Afghanistan e Stati Uniti, che prevede una serie di miglioramenti nel campo di governance, sviluppo economico, riconciliazione e sicurezza con le componenti di incremento di capacità di combattimento, sforzo congiunto, sviluppo della leadership e lotta alla corruzione, elementi che fanno parte della Road Map del presidente dell’Afghanistan Ashraf Ghani da qui al 2020. A questo si aggiunge la parte relativa al “gender”, che vede sempre più donne afghane nelle Forze Armate e non solo e della cui branca si occupano le donne della missione RS, come ha spiegato Rebekah Gerber, della US Navy e MoD Senior Gender Advisor.
Delle varie problematiche e soluzioni se ne parlerà più diffusamente nei servizi e nelle interviste in uscita nei prossimi giorni.
Per capire l’Afghanistan, le strategie in atto per la pacificazione e l’evoluzione del tutto, bisogna venire a Kabul, nel cuore della missione “Resolute Support” della NATO. E anche per capire quel che fanno i soldati italiani a Herat, dove è il cuore della missione nazionale, è importante capire come lavora la testa, il nucleo delle decisioni, che vengono prese qui a Kabul.
Soprattutto, è importante cercare di capire come davvero stanno le cose: quando si parla di Afghanistan, in Italia, ci si affida spesso a quel che dicono i media stranieri, in gran parte schierati contro la politica di Donald Trump e che, quindi, tendono a far vedere solo il bicchiere mezzo vuoto. Oppure, si va per luoghi comuni: l’Afghanistan è sempre pericoloso, non ci sono progressi, la missione è inutile, gli americani usano sempre più contractor al posto dei militari, etc.
L’Afghanistan è pericoloso: ok, è vero, si spara ancora, alcune zone non sono pacificate e l’agguato è dietro l’angolo, ma non è vero che i talebani stiano riprendendo il controllo. La situazione è più complessa, soprattutto se pensiamo che la nuova generazione di talebani vorrebbe entrare nella legalità e combatte altri nemici, quelli del Daesh (Isis) e di Al Qaeda, un cancro perenne peraltro non autoctono. Ed è pericoloso se viaggi da solo nelle lande sconfinate e rischi di essere rapito, più che ucciso, dai vari warlords che si contendono il territorio più per l’oppio che per la Patria. Anche nella nostra Europa, non stiamo messi bene a livello di sicurezza tra sparatorie nei locali, accoltellamenti e camion a tutta velocità sui civili. In quanto alla missione RS, si stanno registrando dei progressi pur con le varie difficoltà che è ovvio ci siano.
Il bicchiere quindi è anche mezzo pieno. E i nostri soldati qui a Kabul, sebbene siano pochi rispetto ad Herat, fanno un lavoro strategico e diplomatico importantissimo, supportati dal comando americano nell’ambito di una missione che è sotto l’ombrello NATO, di cui l’Italia è partner.
Girare per Kabul, pur se fondamentalmente nella green zone, è un po’ estraniante: nella macchina protetta, scortati dai ranger del 4° reggimento alpini paracadutisti di Verona, si incontra gente di tutte le età in bicicletta, donne con il velo ma senza burka, giovani studenti con la divisa scolastica che camminano ordinati e vivaci, negozi aperti, traffico. Vedi la normalità, mentre ti aspetteresti, per sentito dire, che lì è tutto un coprifuoco, per questo è estraniante.
Nelle nostre latitudini sentiamo dire spesso la missione RS è inutile, che ci si parla addosso, che gli afghani non vedono di buon occhio gli occidentali, che gli americani sono solo guerrafondai e che gli italiani perdono tempo etc. Non è quanto riscontrato. E un giornalista deve raccontare la verità dei fatti, almeno di quelli che sente e vede e tocca con mano, non avallare i sentito dire, o gli amarcord di anni fa per un volo e magari nemmeno tattico sui cieli afghani, o una passeggiata in loco come quella sul suolo lunare, o il politically correct tanto di moda. Raccontare quel che si è visto lo impone la deontologia professionale e il rispetto verso i lettori.
È un popolo fiero, quello afghano e gli occidentali, di passaggio o nelle basi militari, sono ospiti e come tali si comportano. Sono gli afghani ad aver chiesto loro di avere addestramento, assistenza e consulenza, a cominciare dal ministero della Difesa afghano fino alle forze armate e forze speciali, che sempre più assumono un carattere autonomo capace di contrastare il terrorismo: anche se c’è tanto lavoro da fare, questo è un dato di fatto.
E allora, tra il sentito dire e il visto di persona, cerchiamo di trovare almeno un compromesso, probabilmente “in medio stat virtus…”.
Dall’Afghanistan non arrivano solo notizie negative, dipende dalla fonte che si privilegia ascoltare: ci sono anche quelle positive. C’è un processo di riconciliazione nazionale ed iniziative diplomatiche con i talebani, senza contare il cessate il fuoco di giugno che è stato rispettato dalle parti.
Si parla molto della presenza degli Stati Uniti sul territorio afghano: non è un’occupazione, bisognerebbe ricordare che c’è una missione NATO che si occupa dell’assistenza delle forze di sicurezza afghane, Resolute Support appunto e che gli stessi Usa ne fanno parte e ci sono anche gli italiani, elemento da sottolineare.
Per quanto riguarda i talebani, non è vero che continuano la loro avanzata in tutto l’Afghanistan, come fanno vedere alcune tv o come scrivono alcuni: è vero che hanno fatto delle azioni, però hanno anche subìto notevoli perdite. La cosa in cui i talebani sono più bravi del governo centrale è la propaganda via web, in cui riescono a trasformare un successo momentaneo o una sconfitta in una vittoria. Con l’avallo di molti media e “maître à penser” occidentali, sembra fare comodo parlare di un Afghanistan rimasto a 17 anni fa, ma non è così. La città di Gazni, ad esempio, di cui si è tanto detto ultimamente: ci sono stati giorni di scontri, è vero, ma non è stata assolutamente presa dai talebani come si è raccontato.
Quindi, abbiamo una percezione errata di quel che accade. Le forze di sicurezza afghane, che hanno realizzato dei grandi progressi contro i talebani, ora dispongono di una componente di forze speciali e di una componente aeronautica che permettono loro di avere una superiorità sul campo di battaglia rispetto ai talebani.
Gli attentati terroristici, in Afghanistan, sono organizzati anche da milizie “straniere” di Daesh (Isis) e Al Qaeda: si dice che le due organizzazioni terroristiche si siano accordate: il dato non trova riscontro in nessuna fonte di intelligenze. Al contrario, Daesh e Al Qaeda sono sempre stati antagonisti. In alcune situazioni hanno realizzato alleanze locali ma sono sempre nettamente separati. Ci sono stati dei “travasi” di persone che avevano militato tra le file di Al Qaeda e poi passate nel Daesh, ma le due organizzazioni non hanno mai lavorato insieme, hanno obiettivi diversi. Tra l’altro c’è crisi anche qui. Non sono in buona salute. Il pensiero principale dei militanti di Al Qaeda qui in Afghanistan, al momento, è quello di sopravvivere, tanto che non riesce a condurre azioni offensive al di fuori dello stesso territorio afghano. C’è, è vero, un minimo di affinità tra Al Qaeda e i talebani e per vecchie ragioni storiche, ma se questi ultimi dovessero entrare in un vero processo di reintegro, potrebbero rinnegare la loro filiazione con i primi. E, sicuramente, non c’è affinità tra talebani e Daesh.
Quando si parla degli americani, si dice che il Pentagono non abbia un piano: in realtà il piano esiste, però la soluzione non è solo militare ma anche diplomatica, economica, politica. È una soluzione che richiede un piano multidimensionale, piano che viene condiviso nell’ambito dell’Alleanza atlantica, quindi dagli Stati Uniti con tutti gli altri alleati che partecipano alla coalizione. Ed è un piano che è stato concordato con gli afghani.
Ovvio che non si può abbandonare l’Afghanistan all’improvviso pur essendo le missioni a termine, ed è anche la strategia di Donald Trump e della sua South Asia Policy, che prevede tra gli altri che il ritiro delle truppe occidentali sia in funzione del raggiungimento delle condizioni sul terreno. Il che dimostra come a monte ci sia, eccome, una strategia, anche di incremento di soldati dove e se serva, compresi ex militari inquadrati di nuovo nelle file dell’esercito americano con altre mansioni, quelli che chiamiamo contractor ma dovremmo metterci d’accordo su cosa intendiamo. Sono dei professionisti ancora utili al loro Paese, assunti dal dipartimento della Difesa o dalla NATO per andare a occupare posizioni che dovrebbero essere riempite da militari, che invece possono occuparsi di altro. Questi “contractors” sono quasi tutti ex soldati che, al termine del servizio attivo, vengono contrattualizzati e proprio in virtù della loro esperienza.
Gli italiani, come gli americani che qui hanno avuto oltre 2mila morti, sono in Afghanistan da molto tempo, sanno come lavorare in loco, conoscono criticità e progressi. Tra i nostri soldati, nello specifico, pur nell’alternanza dei turni, in Afghanistan alcuni ci sono tornati più volte da capitano, da maggiore, da colonnello e magari da generale. Hanno vissuto missioni anche con scontri a fuoco e luoghi, spendendoci due, tre anni della propria vita, magari con un figlio appena nato in Patria.
E va anche ricordato che questa in Afghanistan, pur cambiando nome e obiettivi, dal dopoguerra è la missione dove la Nazione italiana, con 55 caduti, ha pagato il maggior tributo di sangue. Forse, a volte, bisognerebbe pontificare di meno, informarsi di più, sicuramente rendere un doveroso omaggio a questi ragazzi, abbassare il capo in segno di rispetto, tacere.
(foto: Resolute Support / autore / U.S. Air Force / NATO / U.S. Navy)