Osservare, monitorare le violazioni commesse dalle parti, fotografare le scene di violenza per potere costruire dei dossier sui quali mettere a confronto il governo israeliano e l’autorità palestinese. La missione TIPH (Temporary International Presence in Hebron) muove i suoi passi da anni in uno dei contesti più difficili ed emblematici del conflitto israelo-palestinese. Hebron è infatti il paradigma di tutti i problemi politici, religiosi, territoriali che stanno determinando l’insanabilità della contesa tra Israele e Palestina. E’ il luogo in cui la politica degli insediamenti israeliani e le richieste territoriali palestinesi mostrano il loro lato più duro, che si manifesta in una convivenza pericolosa fin nei suoi aspetti maggiormente legati alla quotidianità.
La presenza ad Hebron degli osservatori internazionali, che come indica il nome della missione doveva essere temporanea ma, probabilmente, avrà gli stessi tempi infiniti della disputa in atto, dura dal 1997 ed ogni tre mesi il mandato viene rinnovato. A rendere la comunità internazionale particolarmente attenta alla situazione già bollente nella città della West Bank, fu la strage compiuta nel 1994 da Baruch Goldstein, residente della colonia israeliana di Kiryat Arba. Medico e ufficiale dell’esercito, si recò nella grotta di Macpela, contesissimo luogo in cui secondo la tradizione riposerebbero Abramo e i patriarchi - e nel quale fino ad allora ebrei e musulmani pregavano insieme - uccidendo a mitragliate 29 fedeli musulmani. L’episodio diede la conferma che Hebron non poteva essere lasciata a se stessa e la città, divisa nei settori Hebron 1, sotto controllo palestinese, ed Hebron due, affidato al controllo israeliano, fu posta sotto la tutela della missione TIPH.
Sei nazioni hanno aderito alla missione, la cui leadership spetta alla Norvegia, sede degli accordi di Oslo che avevano sancito quali territori e a quali parti in campo spettassero, ma che furono messi a dura prova dal massacro del 1994. Altri aderenti sono Svezia, Turchia, Svizzera e Danimarca. All’Italia spetta il “cuore” della missione. Infatti il vice comandante è sempre un italiano. In questo caso, il tenente colonnello dei Carabinieri Stefano Nencioni, al quale da poco ha dato il cambio il tenente colonnello Fabio Innamorati, comandante del reparto tutela patrimonio e ambiente dei Carabinieri.
Non siamo autorizzati a nessun intervento. Possiamo solo realizzare foto e video che forniscano una visione approfondita della realtà, che puntualmente finiscono in un report periodico con il quale tentiamo di influenzare i più alti gradi del mondo della politica, spiegando il livello di gravità della situazione, sintetizza il tenente colonnello Nencioni.
Ma la nostra missione ha anche un’azione deterrente. Nonostante non possiamo intervenire “fisicamente” a favore dell’uno o dell’altro, la presenza delle nostre pattuglie in città ha fatto diminuire gli scontri ed il numero di gesti estremi che vengono compiuti sulle strade e ai check-point, aggiunge il tenente colonnello Innamorati.
Un compito altamente delicato, in cui è facile, con il minimo gesto o la più piccola parola, urtare la suscettibilità delle parti in campo. A Hebron, in effetti, la situazione è calda sia nell’area H1 che nella H2,la città vecchia, dove a rendere gli animi sempre più incandescenti contribuisce la presenza di aree di interesse religioso, come appunto la tomba dei patriarchi, teatro dell’attentato che determinò la volontà di porre soggetti esterni a salvaguardia di un minimo equilibrio generale. Non da ultimo, la teoria archeologica che posiziona la tomba di Re Davide non a Gerusalemme ma nel cuore di Hebron, sta determinando nuove pretese da parte israeliana e nuovi malumori da parte palestinese.
Come si diceva, temi e dispute “alte” determinano scontri anche a livello “basso”. Vicini di casa che si insultano a vicenda e si sputano in faccia, reti protettive costruite per tamponare il continuo lancio di oggetti e pietre tra le abitazioni dei piani superiori, nelle quali vivono gli israeliani, e quelle poste al piano terra nelle quali abitano i palestinesi (anche in questo caso la missione TIPH è intervenuta con la realizzazione di reti a protezione dei negozi nel mercato cittadino), fili spinati e check-point posti a divisione dei settori H1 ed H2, determinano l’impossibilità di condurre una vita quotidiana normale e spesso sfociano in attacchi mortali dall’una e dall’altra parte.
Sottoposta a minacce sempre nuove, Hebron rimane un luogo particolarmente interessante per la comunità internazionale, visto che anche dal lato economico potrebbe essere una città fiorente, nella quale, nonostante il quadro cupo e scoraggiante, viene prodotto il quaranta per cento del Pil dell’intera Palestina. La lavorazione delle pietre, la presenza di una rinomata fabbrica di calzature, la produzione tessile della kefiah, indumento diventato simbolo della lotta per la libertà, ne farebbero una città ricca e dalla spiccata vocazione commerciale. La politica dei settlement, l’erosione del territorio dovuta alla conquista di nuove posizioni da parte degli israeliani, gli scontri quotidiani che questa provoca e che portano in molti casi ad attacchi suicidi da parte dei palestinesi, la chiusura delle botteghe del suq legata all’incertezza del futuro, stanno determinando invece il continuo scadimento della già complicata situazione.
Hebron è una città che proprio mentre viene spinta alla morte, aspira a risorgere. La missione TIPH cerca di affiancarla in questo complesso e apparentemente infinito percorso.
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(foto dell'autore)