Appuntamento alle 7 del mattino. Andiamo a visitare una caserma dei vigili del fuoco, una clinica dedicata alla cura di madri e bambini e una scuola elementare e media. Sono progetti “work in progress” realizzati grazie alla cellula CIMIC (Civil-Military Cooperation, ndr) a favore della popolazione, nella zona più difficile di Mogadiscio. Dovevamo farlo qualche giorno prima, ma non c’era sicurezza e il tutto è stato rimandato.
Partiamo a bordo dei Lince, scortati dal Close Protection Team, i ranger del 4° reggimento alpini paracadutisti di Verona. Il viaggio è verso il centro della città, passiamo sul lungomare, al porto, attraversiamo quella che era la parte coloniale italiana. L’arco eretto per la visita del principe Umberto di Savoia nel 1928 è in restauro, scendiamo al volo a fare delle foto. Ma il resto cade a pezzi, compresa la cattedrale che, a guardare le immagini d’epoca, era bellissima e oggi un rudere, la guardi da lontano e spunta una croce, ti sembra di vederla sanguinare…
Ripartiamo veloci, non è sicuro rimanere molto e poi ci aspettano. Molti palazzi sono crollati o bucati per i colpi di fucile, ti rendi conto che è una città ferita ma anche che la gente, qui, ha voglia di tornare a sorridere: lo vedi dai bambini che giocano, dalla gente che ti saluta quando riconosce la bandiera italiana.
Passiamo davanti a una banca, anch’essa crollata e, all’’improvviso, appare la testa d’aquila con paracadute e folgore rossa e sotto la scritta Nembo, un po’ più là la testa d’aquila e il gladio: sono le tracce tangibili che qui, negli anni Novanta, c’era il Check Point Banca, c’erano i paracadutisti in gran parte della 4 cp. Falchi di Livorno. È un’emozione, mi salgono le lacrime: e non solo perché c’erano i “miei” paracadutisti ma perché ripensare all’altro Check Point, Pasta, e ai soldati caduti in Somalia è un attimo, ma un attimo denso di significato. E, come italiana, di gratitudine e fierezza…
Incrociamo anche quella che era la nostra ambasciata: disabitata, ed è un peccato… Ma oggi non è il momento dei ricordi o delle recriminazioni, i tre progetti CIMIC, tre dei tanti realizzati dai nostri soldati, ci aspettano.
La cellula CIMIC, a valenza interforze, è specializzata nella cooperazione civile/militare in supporto alla popolazione. È a Mogadiscio dal 2014 e in altri teatri dove è presente l’esercito italiano, dal 2002. È all’interno di ItaNSE. L’Italian National Support Element, a Mogadiscio comandata dal colonnello Pino Rossi, è il supporto alla Nazione. Tutte le pratiche inerenti gli italiani che sono nei teatri operativi vengono gestite da questo comando centrale che ha le varie cellule, dall’ufficio Personale alla sicurezza, dal supporto logistico alla missione, alla messa in ordine dei mezzi ai trasporti, etc. L’ItaNSE è anche dentro la missione EUTM di Mogadiscio, ma è esterna ad essa. La missione è autosufficiente ma l’Italia, stato maggiore della Difesa, di sua sponte, dedica un “pacchetto di supporto” ai 116 militari in loco. I fondi arrivano dal ministero della Difesa. Sono progetti singoli e non prevedono grossi finanziamenti, un massimo di 35mila euro o poco più per ciascuno.
Il fatto che siano stati realizzati nei quartieri più radicalizzati, è un ulteriore valore aggiunto. Perché a Mogadiscio si continua a sparare e morire. Chiunque può essere un bersaglio, i politici della vecchia guardia come della nuova, i militari, i poliziotti, i giornalisti, una categoria, quest’ultima, particolarmente ricercata per i “tiri al piccione”. Ci si spara per uno sguardo o una parola mal interpretati, per una vecchia vendetta tra i clan o perché sei un bersaglio di Al Shabaab, il gruppo terroristico che sarebbe forse più corretto definire "di banditi", che usa metodi da terroristici. Il gruppo non è affiliato a Daesh, è figlio della stessa Somalia che martorizza. È difficile capirne il fine. Ed è difficile individuarne gli affiliati, potrebbe essere il vicino di casa. Per questo “la gente non li ama, ma ha paura”, mi dicono uomini e donne somali. “Se qualcuno sa e parla, può venire ucciso”.
Le donne come spesso accade ci rimettono di più. “Una volta ognuna vestiva come voleva, non tutte coprivano i capelli. Oggi non più. Tante si coprono anche gli occhi, non è una tradizione somala E anche tanti uomini vestono in modo diverso, da religiosi, è una cosa che io non ho mai visto. Questo per me è un segno di paura. Perché gli uomini di Al Shabaab sanno dove abiti e se tu una volta hai accettato di coprirti devi continuare a farlo, altrimenti ti uccidono. Stanno dappertutto. È tra di noi Al Shabaab, sono somali. Quindi non sono diversi, il nemico non è di fuori ma tra di noi e possono farti del male. Per questo la gente ha paura”.
Banadir Fire and Emergency Service Department
Distaccamento dei vigili del fuoco, 90 i pompieri che a turnazione lavorano qui. Intorno, i bambini che giocano alla “Pompieropoli”: ogni mondo è Paese e loro sono uno spettacolo…
“Ancora non abbiamo fatto nessun intervento strutturale. Però c’è stata una donazione di materiale, 30 uniformi ignifughe, per consentire alle squadre di vigili del fuoco interventi più complessi, quali post esplosione o incendi con prodotti chimici”, spiega il capitano Giuseppe Guzzo.
Siamo nel distretto di Bondheere, uno dei più bersagliati da Al Shabaab e, tra l’altro, a poche centinaia di metri dall’ex ambasciata italiana. Qualche mese fa, gli italiani hanno donato l’equipaggiamento per gestire l’emergenza. Per chiarezza, non ci sono state donazioni da terzi, ma le uniforme sono state acquistate dai nostri soldati in agenzie specializzate con i fondi appositi.
“Abbiamo ascoltato i loro bisogni e in base al tipo di intervento abbiamo stilato le caratteristiche tecniche e gli standard. Queste uniformi, ora, hanno gli standard tecnici i più alti in Europa, che sono adatte all’incendio come all’esplosivo. Abbiamo già ordinato una seconda tranche di uniformi”.
“Per quanto riguarda il training di formazione dei vigili del fuoco, se n’è occupata AMISOM (African Union Mission in Somalia), addestrando gli specialisti che poi, a loro volta, sono diventati i trainer. Un altro gruppo, sta frequentando un corso avanzato in Kenya, a Nairobi”, dice il direttore del centro Abdiqani Mohamed Ahmed. Loro mandano i più bravi che, una volta tornati, avranno il compito di addestrare gli altri. “Per ora, l’unico equipaggiamento che abbiamo avuto lo dobbiamo agli italiani. Qui siamo l’unica squadra di intervento e per ora anche l’unico Distaccamento pubblico”.
Ci sono altre realtà di vigili del fuoco, ma sono privati e una volta che intervengono vogliono essere pagati. Qui no, inseriti in una realtà per niente semplice, con una ventina di interventi al mese i più diversi, dagli incendi nei mercati alle esplosioni vari, dal gasolio agli impianti elettrici precari. Nel training, studiano anche il primo soccorso.
Mentre stiamo guardando la caserma, arriva il vecchio comandante: è un’autentica sorpresa. “Posso parlare in italiano?... Ho fatto il corso a Roma Capannelle nel 1972 e per 23 anni sono stato comandante dei vigili del fuoco di tutta la Somalia, ai tempi di Siad Barre”, ricorda il generale Mohamed Farah Ahmed. “Alla caduta del governo, tutti ce ne siamo andati, Poi, nel 2012, sono tornato e abbiamo creato una squadra di vigili del fuoco nella polizia”.
Al distaccamento dei VVF sono orgogliosi di quello che hanno, dalla training room agli automezzi attrezzati con tanto di scala. “Noi cerchiamo di concentrarci dove sappiamo che c’è più carenza e più urgenza. Da qui, loro coprono tutta Mogadiscio. La prossima integrazione di attrezzatura sarà materiale come asce e pale, kit individuali di primo soccorso e altre uniformi”, aggiunge il capitano Guzzo. Per loro, oltre al presidio antincendio, è anche importante fare, in qualche modo, cultura per la cittadinanza. L’obiettivo futuro è quello di creare un volantino che dia istruzioni base su comportamenti e sicurezza per prevenire gli incendi ed eventualmente come comportarsi quando c’è un focolaio. Sono tutte idee del direttore del Distaccamento, che crede molto nella prevenzione, oltre che nell’intervento tempestivo e professionale. Al momento, non c’è nessun altra nazione o organizzazione che supporta i vigili del fuoco tranne l’Italia. I progetti CIMIC sono a medio termine, ma ci si può lavorare, step by step, dando la precedenza alle priorità.
Shibis Medical Centre (Mother and Child Healthcentre)
Oltrepassare quel portone che immette nella Shibis Medical Centre (Mother and Child Healthcentre) vuol dire entrare in un tripudio di colori, tra i vestiti delle mamme e dei bambini, assiepati per terra o seduti sulle panche. Questa è un’oasi felice dedicata alle donne, partorienti o che svezzano i figli, con annesso un centro antiviolenza dove la fila è lunghissima: è segno che le cose si stanno muovendo e che le donne stanno riappropriandosi del loro diritti al rispetto.
Dopo il primo impatto tra colori sgargianti, voci, risa e pianti dei bambini, ti guardi meglio interno e noti che molte di queste madri sono loro stesse quasi delle bambine. Per noi, è estraniante; per loro è la normalità, qui ci si sposa presto. Ottanta sono profughe che provengono da fuori Mogadiscio, tante altre vengono dai vari distretti della città, quasi tutte vivono qui e fanno parte di un programma di nutrizione.
Questa clinica è stata rinnovata dall’ItaNSE, dalla cellula CIMIC l’anno scorso. Era scoperchiata, senza tetto, sabbia a terra al posto della pavimentazione. Qui ora si seguono diversi programmi, dalla nutrizione alla vaccinazione all’allattamento al seno. Le zone comuni servono a svolgere queste attività, non solo prettamente mediche ma anche di consapevolezza. Loro sono il veicolo dell’informazione, chi segue questi programmi può parlarne alle altre donne e informarle a 360 gradi, dalla prevenzione delle malattie dell’infanzia alla corretta nutrizione alle malattie sessualmente trasmissibili.
Questo luogo è un gioiello perché riescono a fare tante attività che poi hanno un impatto, non immediato come la cura, ma prolungato nel tempo.
Grazie alla ricostruzione c’è un’aula in più, adibita a ufficio in cui raccolgono e segnalano violenza domestiche e ci sono infermiere che fanno monitoring. Le donne vengono qui, si sentono a loro agio (perché l’ambiente è recintato e chiuso) e parlano.
Osservando meglio, cercando di andare oltre quegli occhi incuriositi e intimoriti che ti scrutano, alcune di queste donne i segni di violenza ce l’hanno sul volto, l’unica cosa che è scoperta e quindi evidente. Come è evidente la fila lunghissima verso il centro di ascolto antiviolenza, ma non appena le donne vedono che le stai osservando, tornano indietro e fanno le vaghe. È giusto, sono cose delicate e non sanno chi sei, se possono fidarsi. Perché poi dovranno tornare a casa… e comunque qui si parla di qualsiasi argomento inerente donne a bambini.
Tra i piccoli ce n’è uno albino, che la madre ha cercato di rendere più simile agli altri tingendogli i capelli di rosso: se lo dovessero trovare gli uomini di Al Shabaab, lo considererebbero impuro e al tempo stesso raro e quindi da uccidere in sacrificio al loro dio, è già successo.
“Molti bambini arrivano con evidenti segni di malnutrizione, qui vengono pesati prima, durante e dopo la cura e stabilizzati. Lo Shibis è organizzato per stadi: dal prenatale alla nascita, da zero a cinque anni, la parte dedicata all’awareness e quella del monitoring”, spiega la direttrice Shukri Hussain Maramed.
Una delle infermiere mi mostra la foto di un bambino malnutrito quando è arrivato qui e non è un bello spettacolo. Poi ti mostrano i bambini stabilizzati, uno lo stanno pesando sulla bilancia come quelle nostre di una volta e il cuore ti si apre. Non puoi non commuoverti. E non puoi non riflettere su noi che abbiamo tutto e niente ci basta mai e su loro, che hanno poco più di niente e sono un inno alla speranza, alla vita
Parlarne, per quanto fedelmente, non rende l’idea della bellezza e del lavoro che direttrice, infermiere e i volontari, ci sono anche uomini, svolgono in questo centro, a favore delle donne e dei bambini. Se a Stoccolma fossero indecisi sul nome da indicare per il prossimo premio Nobel per la Pace, considerare una situazione come questa tra i candidati potrebbe essere un’idea…
Scuola Primaria e Secondaria Dhamme Yasin Arten
Tra le richieste che la cellula CIMIC ha ricevuto, c’era quello di costruire un campo di basket. È stato fatto, nella scuola Primaria e Secondaria Dhamme Yasin Arten.
A Mogadiscio il basket è uno sport molto diffuso, anche tra le ragazze, sebbene Al Shabaab non sia d’accordo. E allora, in risposta e proprio per questo, ben vengano simili iniziative! La scuola è circondata da alte mura, soprattutto il campetto da gioco è interno, è un luogo protetto da sguardi altrui e quindi le ragazze possono giocare.
Da maggio fino al 2 agosto a Mogadiscio c’è stato il torneo di basket femminile. Lo stadio era pienissimo, il sindaco ha ringraziato pubblicamente gli italiani. L’evento sportivo è stato possibile proprio grazie alla donazione di materiale sportivo ed uniformi da gioco, come supporto all’amministrazione locale nello sviluppo di questo sport tra le giovani donne di Mogadiscio.
“Il mattino vengono i ragazzi delle medie, il pomeriggio quelli delle elementari”, spiega il direttore Said Ahmed Hassan mentre ci accompagna a visitare la scuola.
Le aule, dove si studia anche inglese, sono miste, maschi e femmine, ognuno su file separate ma insieme nello stesso luogo e anche questa è una bella sfida, nel quartiere peggiore di Mogadiscio, molto radicalizzato. Aiutare questi ragazzi e le loro attività in un ambiente chiuso, quindi sicuro, con classi miste, con la volontà di supportare sport di squadra femminili, è una piccola nicchia di eccellenza, che va sostenuta. Impatta anche nel quartiere e, non a caso, è stata oggetto anche di altri progetti internazionali. E anche qui come altrove, in Somalia, è da sottolineare che è vero che noi li aiutiamo, ma sono loro che lo chiedono, sono loro che per primi, anche se difficilmente lo ammetteranno con un estraneo, dicono no alla radicalizzazione. E se questo "no" sono i più giovani a dirlo, il futuro decisamente appartiene a loro.
(foto dell'autore / EUTM-S)