Parlare di Difesa e approfondire temi di politica internazionale e geopolitica implica l’esistenza di una comunità. Anzi, di comunità diverse che si confrontano e interagiscono a tutti i livelli, sia nel piccolo che in un’ottica globale.
L’interazione non riguarda solo il codice di relazioni disciplinate dal Diritto Internazionale e dal Diritto Pubblico, ma rientra nelle leggi della convivenza, sintetizzate da apparati normativi e riconosciute anche nella logica del buon senso. In altri termini, i rapporti fra esseri umani non si regolano solo con le leggi degli Stati e con le convenzioni fra nazioni, ma richiamano principi naturali buoni per tutti. Non a caso il Codice Civile parla di “diligenza del buon padre di famiglia” proprio per identificare comportamenti lodevoli che non si spiegano ma che così sono.
Parafrasando il concetto, quando parliamo di dottrine di Difesa, di analisi e strategie che riguardano Paesi e alleanze, facciamo continuamente riferimento a principi superiori che li giustificano.
Più semplicemente possiamo dire che non esiste un’idea di Difesa senza valori da difendere. Valori in senso lato, s’intende. Sorta di contenitori da riempire in modo diverso a seconda dei tempi e dei luoghi ma che dovrebbero sottintendere in assoluto il reciproco rispetto fra uomini e comunità di uomini.
La questione si propone con più urgenza nei periodi di grande dinamismo demografico in cui crisi economiche, carestie e spostamenti di massa alterano gli equilibri sociali e rendono più difficile il raggiungimento di un status accettabile per tutti.
La questione si complica soprattutto se parliamo di migrazioni massicce, col conseguente accostamento di culture diverse; il ricorso ai principi universali in questi casi potrebbe far comodo. Almeno in teoria.
Un esempio su tutti: “se la convivenza vuole essere armonica, allora il rispetto reciproco deve essere un dogma”.
Molto se ne parla in queste ore, alla luce di fatti di cronaca che ripresentano il problema dell’integrazione in Italia di popoli Romanì, in particolare Rom e Sinti. La débacle organizzativa italiana nell’assorbimento di popoli gitani dall’Est non è cosa nuova. Il problema è esploso in modo eclatante alla fine degli anni ’90, con la conclusione dei quattro conflitti della Ex Jugoslavia e con il ritorno della Romania nella sfera occidentale. Lo scioglimento del Patto di Varsavia e l’ingresso nella UE, a quindici anni di distanza, sono due tappe significative in questa direzione.
Il fenomeno, passato inosservato in Italia fra malizie e negligenze di ogni genere, è stato il seme di frizioni ormai divenute insostenibili. Rom e Sinti, notoriamente poco amati nei Paesi di origine (oltre alla Romania latina, praticamente tutte le repubbliche slave della ex Jugoslavia), sono una questione aperta da secoli. Inutile fingere di non saperlo.
Per imperizia e pigrizia l’evidenza è stata sempre ignorata, fino a che particolari contesti ideologici ne hanno permesso la ribalta.
Tra i principi assoluti necessari ad una pacifica convivenza, nell’ultimo decennio non pare sia stato menzionato quello secondo cui un’integrazione è possibile se basata sui doveri di tutti e non solo sui diritti di alcuni. Senza eccezioni.
I postumi di una cultura sessantottina vagamente egalitaria e profondamente antidentitaria, hanno permesso di glissare su questo punto, mantenendo la questione sospesa e dando per buoni due assiomi, senza garantire un adeguato confronto interno:
- l’Italia deve trasformarsi in una sorta di Ufficio Collocamento del pianeta;
- non c’è identità da proteggere.
Se il primo punto viene addirittura dato per assodato, miscelando diritti umanitari a necessità globali non meglio definite, il secondo mette in risalto una debolezza tipica della società italiana. Non immune da pesanti responsabilità politiche, nella cultura italica il principio d’identità spesso rimane indefinito, rendendo molto difficile una semplice declinazione di principi validi per tutti e quindi irrinunciabili.
Il tema è spinoso e complesso ma si sintetizza con due domande che in altri Paesi farebbero sorridere:
- abbiamo qualcosa da difendere?
- da cosa dobbiamo difenderla?
Sulla questione Rom il dibattito appare polarizzato: da una parte la rabbia; dall’altra il rifiuto dell’identificazione dell’”altro”.
Può sembrare banale, ma la scissione è a monte. Ad allarmare di più non è infatti l’attrito fra una comunità e l’altra ma quello tra chi delinea un codice di comportamento valido per una società (in questo caso quella italiana) e la quinta colonna del pensiero unico mondialista, radicalmente opposto a ogni forma di identità, in particolare quella nazionale.
È evidente che su questo punto, il confronto muoia in partenza.
Se davanti ad episodi di sfrontata e reiterata illegalità anche l’indignazione segna il passo, viene da chiedersi quanto sia grande il rifiuto per l’idea stessa di appartenenza. E soprattutto perché.
Identità e appartenenza non sono un principio etnico. Sono un contenitore di valori, espressione di secoli.
Chi non appartiene, non ha nulla da perdere e non ha nulla da difendere. L’attaccamento alle proprie cose è un fattore umano conosciuto già ai neonati, svincolato da patriottismi, sciovinismi e nazionalismi vari.
Finché non ci sarà un esame di coscienza serio su questo tema, non è facile immaginare equilibri buoni nel breve periodo. Il suicidio identitario continuerà e un confronto sterile indebolirà ancora il tessuto di una società sempre meno riconoscibile e sempre più dubbiosa di sé.
Probabilmente è ciò che si vuole, aspettando altre morti, altre indignazioni, altro odio, altre scuse.
Giampiero Venturi