Lo Stato Islamico dichiara guerra all'Arabia Saudita dopo che Riad, attraverso il ministro della difesa Mohammad Bin Salman (uno dei principi ereditari), ha ufficialmente promosso la coalizione di 34 Paesi islamici che combatteranno il Califfato, citato come organizzazione terroristica. La notizia ha tre giorni ed è corredata dalla prova video dell’esecuzione di un “agente” di Riad, accusata di collaborare con il fronte “crociato” guidato dagli Usa.
La notizia suscita non poche perplessità alla luce dei dubbi che da tempo la condotta saudita solleva riguardo i rapporti con l’Isis.
La prima riflessione concerne la lista dei Paesi partecipanti: oltre all’Arabia Saudita che coordinerebbe le operazioni da Riad, sono compresi molti Paesi islamici asiatici e africani, ma non tutti gli aderenti alla Lega araba.
L’elenco completo vede la presenza di Bahrein, Bangladesh, Benin, Ciad, Comore, Costa d’Avorio, Egitto, Emirati Arabi, Gabon, Gibuti, Giordania, Guinea, Kuwait, Libano, Libia, Maldive, Malesia, Mali, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria, Pakistan, Palestina Qatar, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Togo, Tunisia, Turchia, Yemen.
Presenze e omissioni non sono casuali. Mancano all’appello innanzitutto Siria e Iraq, non considerati dai sauditi vittime del terrorismo ma ostaggio di istituzioni “indegne” di rappresentare il mondo islamico nella fantomatica lotta al terrorismo. Nella lista degli indegni assenti c’è anche l’Iran, esterno ai Paesi arabi ma anche alle grazie saudite in virtù dello scontro politico che si trascina da decenni tra Teheran e Riad.
Il messaggio politico è nemmeno troppo sottile se consideriamo i filtri attraverso cui il principe Mohammad avrebbe presentato il cartello. Innanzitutto osserviamo il coinvolgimento di Paesi tutt’altro che stabili politicamente. Mettendo da parte il caso della Somalia non in grado di garantire la propria integrità nazionale, ci sono altri Stati sulla cui credibilità si addensano fitte nebbie. È il caso del Sudan, del Mali e soprattutto della Libia, inclusa rapidamente nella lista dei probi, addirittura prima dell’accordo di facciata con cui ci si sforza di credere ad un governo di unità nazionale.
L’asse sunnita, comprese le componenti jihadiste che contiene, pare non possa fare a meno dell’”ala africana”, soprattutto quella in cui le derive islamiste sembrano ormai radicate. La presenza nell’elenco di Paesi della fascia sahariana e del Sahel non è casuale. Dal Senegal a Gibuti, sono citati da ovest a est tutti gli Stati della nuova frontiera dell’islamizzazione sunnita, quella cioè che fa capo politicamente e soprattutto finanziariamente alle monarchie del Golfo e alla Turchia, anch’essa menzionata.
A questo proposito non va sottovalutata l’iscrizione di Nigeria, Ciad e Costa d’Avorio nella lista dei Paesi musulmani. Se nei primi due Paesi l’islam non rappresenta che il 50% della popolazione, quella ivoriana si proclama musulmana solo per un terzo. Benché irrilevante dal punto di vista geopolitico, è emblematico la citazione del Togo, considerato islamico dall’Arabia Saudita anche se i togolesi musulmani non superano il 20%.
L’Arabia Saudita con una dichiarazione ufficiale che sta lasciando meno strascichi di quanto dovrebbe, si autoelegge selettore dell’islam buono da quello impuro davanti alla comunità internazionale.
L’omissione dell’Iran sciita sotto questo aspetto ha una valenza politica molto rilevante. Almeno quanto quella dell’inserimento dello Yemen, da leggere non in chiave di appoggio ai trattati di pace tra ribelli Houti e presidente Hadi (tra l’altro rinviati a gennaio) ma come la riaffermazione di un assunto saudita: San’a è sunnita ed è nostra alleata. A conferma di ciò è bene notare l’assenza dell’Oman, unica tra le monarchie del Golfo Persico a non avere rapporti idilliaci con l’Arabia Saudita e a non essere a maggioranza sunnita.
Riguardo la lotta al terrorismo internazionale l’annuncio roboante saudita lascia pertanto molti punti oscuri. Quantunque da più parti il Principe Mohammad sia considerato un pragmatico “riformista”, non è azzardato pensare che Riad, ben lungi da un impegno senza tregua contro il terrorismo stia affilando le armi per costruire una più forte dimensione geopolitica del Paese. L’obiettivo in un futuro prossimo è rispondere alle pressioni americane per una maggiore intraprendenza mediatica contro il terrorismo e diventare un punto d’aggregazione svincolato dal petrolio e dagli assets finanziari posseduti nel mondo.
La reazione silente dei Paesi coinvolti, interni ed esterni alla Lega Araba, sembra avallare questo disegno e confermare questa impressione: Riad ha progressivamente aumentato negli anni la sua capacità di imporre soggezione politica, non solo ai vicini. Il trend sembra destinato a crescere, soprattutto se Stati Uniti e Turchia continueranno ad intrattenere con i sauditi rapporti speciali.
In attesa di una collocazione dell’Indonesia (primo Paese islamico al mondo) invitata eventualmente ad unirsi al cartello, unica voce fuori dal coro da segnalare è il Pakistan. Islamabad si è affrettata a prendere le distanze dal coinvolgimento, dichiarando di non essere stata consultata.
Rimandiamo su questa rubrica alle considerazioni geopolitiche sul Pakistan attuale.
Immaginiamo comunque che il comune denominatore sunnita che ha posto spesso sullo stesso fronte Islamabad e Riad è saldo. La specifica del Pakistan sembra più una rivendicazione di peso politico all’interno della coalizione che un distinguo ideologico. La lotta a ciò che consideriamo Isis probabilmente ha bisogno di altri presupposti.
(foto: الجيش العربي السعودي /web)