A Istanbul è vero terrorismo? Luci e ombre dietro gli attacchi alla Turchia

(di Giampiero Venturi)
01/07/16

L'attacco all'aeroporto Ataturk di Istanbul non è estemporaneo, né casuale. S'inserisce nel pieno degli attuali scenari di crisi in Medio Oriente e in modo specifico segue il filo e le evoluzioni del quadro siriano.

Quando si verifica un attacco in grande stile contro simboli istituzionali turchi, soprattutto se la modalità è stragista, allo stato attuale due soli possono essere i mandanti: attentatori legati alla causa curda e in particolare al PKK; miliziani o esecutori su commissione per conto ISIS.

L'origine ideologica e politica dei due ceppi è diametralmente opposta: la mano curda fa riferimenti alla politica interna di Ankara e a questioni sospese da decenni; la matrice fondamentalista legata al Califfato agisce viceversa in relazione alla politica estera turca e agli equilibri generati negli ultimi 10-12 mesi. 

Più volte su questa rubrica abbiamo fatto rilievi sulla condotta di Ankara in relazione alla questione siriana, in particolare al comprovato sostegno ai miliziani islamisti di Al Nusra, branca siriana di Al Qaeda (v.articolo). Abbiamo parlato a più riprese sia di un allontanamento dai dogmi di laicità imposti dalla rivoluzione di Ataturk, sia di un revanscismo ottomano, volano della nuova Turchia di Erdogan per un protagonismo politico in tutta l'area compresa tra il Maghreb libico e l'Asia centrale.

Congetture di pura logica geopolitica lasciano immaginare che Ankara abbia più di un interesse a recitare il ruolo di vittima del fondamentalismo islamico. Da una parte per rafforzare l'immagine di nazione sulla carta in prima linea contro il terrorismo integralista; dall'altra per giustificare lo stato di emergenza perenne e la repressione interna, nonché  la forte militarizzazione  ai confini sudorientali e gli interventi diretti oltre la frontiera siriana. 
Gli intrecci tra Ankara e islamismo, messi a nudo senza equivoci da molti analisti, non possono tuttavia prescindere dalla rapida evoluzione della guerra in Siria e in particolare dallo scenario maturato nei primi mesi del 2016.

Il ribaltamento sostanziale dell'andamento del conflitto ha posto le condizioni per la sopravvivenza del governo di Assad, con un indebolimento critico delle "istituzioni" dello Stato Islamico e delle sue capacità militari. All'offensiva generale delle Forze Armate siriane la coalizione antiterrorismo a guida USA, dopo l'iniziale momento d'imbarazzo, ha risposto a partire da aprile 2016 con un dinamismo finora inedito: i curdi dell'SDF appoggiati dai reparti speciali americani (entrati in Siria senza approvazione ufficiale di Damasco) sono in progresso sul fronte nord e sud, ben oltre gli obiettivi ufficiali coperti dalla causa indipendentista curda; in Iraq, dopo la clamorosa caduta di Falluja, le forze governative filoamericane avanzano in queste ore verso Mosul, "capitale irachena" del Califfato.
In altri termini, il conto alla rovescia per l'ISIS sembra iniziato.

Perché proprio ora? Perché dopo anni di inerzia e sospetti di collusione la coalizione internazionale anti terrorismo ha deciso di sbarazzarsi dello Stato Islamico?

L'improvvisa fretta degli Stati Uniti si lega all'imprevisto successo di "marketing" della Russia di Putin e dei suoi alleati sul campo e alla necessità di ridurre il ruolo futuro di Damasco, finita nella lavagna dei cattivi dal 2011. Per Washington giocare un ruolo decisivo nel rush finale contro il Califfato è un must politico e mediatico che spiega il dispiegamento dell'Eisenhower e i massicci e decisivi bombardamenti in Iraq, prontamente esaltati dalle TV dei Paesi NATO.

A conferma della decisione di farla finita col "giocattolo impazzito ISIS" arrivano le notizie dal fronte nord siriano, dove lo scontro tra miliziani dello Stato Islamico (v.articolo) e altre fazioni islamiste è un dato ormai acquisito da inizi 2016.

Nella confusione, oltre a gruppi apparentemente laici creati ad hoc dagli USA (l'ultimo è il New Syrian Army, frangia dell'FSA alleata ai curdi dell'SDF), un ruolo preponderante nello scontro lo recitano le milizie terroriste di Al Nusra appoggiate dalla Turchia, spesso impegnata direttamente con le proprie forze regolari.

L'attentato all'aeroporto di Istanbul può essere interpretato quindi in due modi:
- vendetta ISIS per le operazioni turche in territorio siriano;
- ufficializzazione del ruolo turco contro il Califfato, che al tempo stesso non impedirebbe ad Ankara di continuare a muoversi nell'area appoggiando i propri vassalli islamisti di matrice turcomanna.
Quest'ultimo aspetto lascerebbe intendere una sorta di strategia della tensione, dove il soggetto apparentemente vittima sarebbe in realtà quello che trae maggior beneficio dagli attentati stessi.

Le bombe contro obiettivi turchi sono dunque una conseguenza militare di una scelta politica o un evento più o meno benedetto che fa comodo ad Ankara?

Capire la dose con cui si mischiano le due interpretazioni non è facile. Dati oggettivi rimangono comunque la parabola discendente dello Stato Islamico e la funzione strumentale della sua aperta ostilità ad Ankara.   

Ne avremo conferma prima della fine dell'anno, quanto Turchia e Stati Uniti saranno con ogni probabilità incensati come paladini della vittoria contro il Califfato.

(foto: web / Türk Silahlı Kuvvetleri / U.S. Navy)