La crisi greca nell’Europa senza frontiere: se questa è Unione…

(di Giampiero Venturi)
01/07/15

- Maastricht sta in Olanda ed è piena di fiori. Un po’ come San Remo, con la differenza che San Remo è famosa per il Festival, Maastricht per i parametri. Niente di strano. Da sempre le città si legano a qualcosa. Se vale dire “le olive di Gaeta”, “la pasta di Gragnano”, “il prosciutto di Parma”, allora valgono pure “i parametri di Maastricht”. Città che vai, specialità che trovi.

Maastricht sta in Olanda ed è piena di fiori. Un po’ come San Remo, con la differenza che San Remo è famosa per il Festival, Maastricht per i parametri. Niente di strano. Da sempre le città si legano a qualcosa. Se vale dire “le olive di Gaeta”, “la pasta di Gragnano”, “il prosciutto di Parma”, allora valgono pure “i parametri di Maastricht”. Città che vai, specialità che trovi. 

Mentre olive, pasta e prosciutto sono comprensibili a tutti, possiamo però sostenere con buona approssimazione che i parametri di Maastricht sono una materia più indigesta.

Era quasi il ’94. Mentre dopo 50 anni tornava la guerra in Europa, gli Stati membri dell’Unione preparavano il tappeto rosso ad una nuova moneta. Tutto avveniva in sordina, con discrezione, nello stile tipico delle manovre di Politica Economica, in particolare quelle di Politica Monetaria, innescate spesso da interventi sconosciuti ai più.

I parametri di Maastricht sottoscritti con gli accordi, riassumendo grossolanamente, possono essere sintetizzati in:

deficit massimo 3% del PIL debito pubblico massimo 60% del PIL inflazione 1,5% massimo rispetto ai Paesi più virtuosi

Nelle situazioni di euforia capita spesso che ci si scordi della propria condizione. Così dalla barca Europa, in un clima di ebbrezza, quando tutti si sono tuffati in mare, alcuni dimenticavano di non saper nuotare.

Nell’allegria collettiva, l’Italia ad esempio dimenticava di vantare un debito pubblico record, superiore al 110% del PIL. Era più o meno come tuffarsi in mare con uno zaino di cemento sulle spalle.

La cosa può lasciare indifferenti ma val la pena ricordare che uno Stato può fare cassa solo in tre modi:

stampando moneta con le tasse col debito pubblico

Immettere nuova valuta, come spiegano i manuali di Politica Economica, era un classico dei tempi di Filippo II. L’iperinflazione che derivò dall’oro americano però, ha lasciato i segni sulla Spagna per i successivi quattro secoli. Ammesso anche che in determinate circostanze sia tecnicamente utile, in ogni caso servirebbe una Banca Centrale. Oggi però la Banca d’Italia mantiene la sola funzione di controllo, avendo delegato gli strumenti di Politica Monetaria, branca di quella Economica, alla Banca Centrale Europea con sede a Francoforte, in Germania.

Secondo metodo per fare cash sono le tasse, vecchie alleate di tutti i tesorieri dai tempi delle caverne. I riflessi negativi di un inasprimento fiscale sulla domanda aggregata (sul PIL) sono però intuitivi: togliere moneta dalle tasche dei cittadini contrae i consumi e nel medio periodo brucia i vantaggi che produce. Le tasse hanno poi le controindicazioni politiche, essendo una leva impopolare e poco flessibile. Non ci vuole un genio a capire che tutti i giri di vite fiscali tendono ad avvenire lontano dalle campagne elettorali…

Terzo strumento, caro al vecchio sistema Italia, è appunto il debito pubblico. Attraverso BOT e CCT piazzati a valanga grazie a tassi d’interesse generosi, per decenni si è realizzato un sistema di cassa basato sull’anticipo di contante: i cittadini risparmiavano, lo Stato disponeva di liquidità. Una sorta di costante rinvio al futuro, dando per buona l’idea di avere un debito stratosferico e cumulativo.

Con queste premesse sottoscrivere gli accordi di Maastricht e i relativi parametri è stato come consegnare il portafoglio (a Francoforte) prima di fare la spesa. Gli unici sistemi per avere liquidità sono diventati la pressione fiscale, la (s)vendita del patrimonio pubblico e il taglio delle spese.

Ecco spiegato che mentre le olive di Gaeta, la pasta di Gragnano e il prosciutto di Parma piacciono a tutti, i parametri di Maastricht hanno cominciato a stare sugli zebedei a molti.

La sintesi che riflette appieno la situazione italiana, si allarga ovviamente a tutti quei Paesi dai conti non virtuosi che come la Grecia si sono basati da sempre sulla spesa pubblica per alimentare la propria domanda aggregata. Ecco così la creazione di due economie parallele:

da una parte gli Stati con i conti più o meno in regola, capaci di far fronte al nuovo sistema d’integrazione monetaria con gli stessi schemi di prima; dall’altra i Paesi con un debito pubblico alto e abituati ad un’economia per lo più pubblica, improvvisamente obbligati a rivoluzionare la loro politica economica.

La Grecia in questo disastro ha avuto anche l’handicap di non essere un’economia strutturata soprattutto nel settore manifatturiero, che altrove garantisce flussi di liquidità con le esportazioni. Per rimanere in area euro, anche Portogallo, Spagna e Cipro hanno lo stesso problema.

L’Italia viceversa è parte del G8 e ha potuto finora rimandare il disastro anche grazie al volume dei suoi numeri commerciali e a un peso decisamente diverso rispetto ai cugini del Sud Europa. Ma il conto è arrivato.

Capire se sia colpa di Francoforte o di cattive gestioni del denaro pubblico è questione delicata.

Vale però la pena riflettere sulla genialità di aver unificato sistemi diversi sul piano finanziario, economico, sindacale e non da ultimo politico. Sul piano della politica economica parliamo di sistemi ad economia liberista affiancati a Paesi con tradizione assistenziale. Sul piano del peso, parliamo di superpotenze industriali con economie aggressive messe sullo stesso piano di sistemi semi agricoli basati sul debito; sul piano del lavoro parliamo di mercati con salari diversi unificati da un giorno all’altro.

Dovremmo spiegarci se integrare l’Europa dall’alto con queste criticità sia stato più utile che cercare con calma i punti in comune dal basso. Piuttosto che unificare sistemi monetari e finanziari, forse una riflessione sulle comuni radici di popoli avrebbe aiutato di più. Magari allungando i tempi dell’integrazione, ma garantendone la tenuta.

Ammesso che la crisi greca rientri, ci saranno altre questioni che ci interrogheranno sull’effettiva utilità di un’Unione così congeniata. Basti pensare a Serbia ed Albania, candidate all’ingresso nei prossimi anni. Torneranno i problemi irrisolti dei Balcani e ci si chiede se basteranno tassi d’interesse e retorica a risanare ferite millenarie.

La dignità e il benessere di un popolo non è detto che passino dai numeri, dalla finanza o da una valuta comune. Non basta eliminare le frontiere per garantire la convivenza tra uomini.

Tutto questo a Maastricht, tra mercatini pieni di fiori, interessa poco. A sud intanto, pensionati e persone comuni fanno la fila ai bancomat. Se questa è Unione…

Giampiero Venturi