L’Islam contro l’Islam. L’Iran diventa necessario

(di Giampiero Venturi)
07/10/15

In principio era la Persia, potenza indiscussa già ai tempi di Ciro e Serse; poi è stato Iran, la Terra degli Ariani. Quale sia il nome, la prima Repubblica Islamica della storia contemporanea, pecora nera della comunità internazionale per 40 anni, è riuscita a rimanere in piedi con un percorso tutto suo.

Quando l’Occidente voltò le spalle alla neonata teocrazia di Khomeini, il mondo islamico sunnita si accodò e chiese il conto. Per la scelta di seguire il ramo sciita dell’Islam iniziata nel 1500, Teheran, madrina degli scismatici per eccellenza, fu di fatto isolata. Le monarchie del Golfo, Arabia Saudita, Kuwait e Bahrein in testa, terrorizzate dalla possibile espansione iraniana fecero coincidere la rivoluzione del 1979 con un castigo politico integrale. L’Iran è finito così per fare da limite geografico a un Medio Oriente in cui in realtà non si è mai integrato.

Scottati dalla presa degli ostaggi all’ambasciata di Teheran e dal goffo fallimento di Eagle Claw nel 1980, gli Stati Uniti sono diventati nel tempo i più grandi sostenitori del soffocamento internazionale del regime iraniano. Tentativo pienamente riuscito, ma che non ha cambiato la sostanza delle cose. Con la vittoria del riformista Rouhani alle presidenziali del 2013 e la fine dell’era Ahmadinejad, l’Iran ha dato prova di stabilità istituzionale, capace di continuità e al tempo stesso di riforme, con alternanze degne di Paesi dalla democrazia dichiarata.

Cambiati gli scenari, la diplomazia si è adeguata. L’Iran da fulcro dell’asse del male, catena di Stati canaglia e terrorismo internazionale, torna a un nuovo ruolo politico e rientra nel consesso delle Nazioni senza pagare troppo pegno. Da culla dell’integralismo, nei fatti, ne è diventato paradossalmente il freno.

Passaggio sintomatico della ribalta persiana sono gli accordi di Vienna sul nucleare del luglio 2015. Una vittoria diplomatica a 360° per tre ragioni fondamentali:

  • la genericità dei contenuti dell’intesa e le leggi pregresse del Majlis (il Parlamento iraniano) permettono una gestione blanda del monitoraggio dei siti atomici e una parziale esclusione dei siti militari;
  • gli accordi hanno contribuito a peggiorare i già freddi rapporti tra Israele e USA, ponendo un fossato fra due nemici storici di Teheran;
  • la fretta americana di arrivare a un’intesa  ha dimostrato il ruolo fondamentale che gioca l’Iran sullo scacchiere mediorientale.

Quest’ultimo punto sembra il perno attorno a cui ruotano tutti i nuovi equilibri del teatro Medio Oriente. Dell’Iran, volenti o nolenti, c’è un disperato bisogno.

Da cosa dipenda il ritrovato peso di Teheran è presto detto. Lungo la diagonale Mediterraneo-Golfo Persico la deriva irachena, la guerra civile siriana e lo sviluppo di Isis hanno destabilizzato un’area d’importanza strategica incalcolabile. Il rischio di dissoluzione delle entità statuali e la mancanza di interlocutori riconoscibili è stato acutizzato dalla dispersione di fenomeni jihadisti sunniti lungo un arco globale che va dall’Africa Occidentale all’Asia centrale: dall’Afghanistan alla Nigeria, l’Islam radicale e le sue propaggini sono diventati da metà anni ’90 fonte di assoluta precarietà. A questo si è sommato il fallimento delle primavere arabe, progetto suicida alimentato dall’Occidente. L’implosione di capisaldi storici del mondo arabo e la rimozione di rais laici ha generato disordine. Se da fine anni ’70 a inizio millennio l’Iran era la mina vagante e i Paesi arabi i punti fermi (perfino nei ruoli antagonisti), nell’ultimo decennio il sistema si è ribaltato. Oggi, per forza di cose, ci si deve fidare più dell’Iran che del vuoto intorno.

Fatte salve le eccezioni mosse da Israele, naturalmente allarmato dalle tinte antisioniste di Teheran, la necessità di reintrodurre l’Iran nel gotha internazionale si sente da più parti.

Fa gioco a tutti innanzitutto il ruolo anti Isis, vissuto da Teheran come argine all’integralismo sunnita. La nascita dei Talebani in Afghanistan prima, lo sviluppo di Al Qaeda e dei Fratelli Musulmani poi, avevano già dimostrato lo stesso principio  in passato: un blocco musulmano sciita ostile alla jihad sunnita globale è fondamentale. Non è azzardato ipotizzare che se fosse mancato il filtro iraniano, oggi tra Islamabad e Dakar avremmo forse una lunga e ininterrotta linea verde islamista.

Sotto questo profilo la collaborazione con gli alauti al potere a Damasco, lo sponsor storico a Hezbollah in Libano, l’aiuto agli sciiti iracheni (Sadr City a Baghdad è in sostanza una propaggine iraniana) e gli aiuti diretti agli Houti nello Yemen, hanno un grande valore: creano soluzione di continuità ad una possibile integrazione di islamismi.

Sono passati quasi 30 anni dall’abbattimento dell’airbus iraniano nel Golfo Persico e ormai da un po’ Iran e Stati Uniti hanno smesso di minacciarsi apertamente.

Oggi l’Iran di fatto è l’unica potenza regionale reale dopo Israele. I dati demografici, le riserve di petrolio, la forza militare e l’indipendenza politica gli affidano un ruolo chiave nella geopolitica mediorientale e mondiale.

Per motivi diversi Arabi (eccetto musulmani sciiti e cristiani) e Israeliani frenano. Gli splendidi rapporti con Mosca e le necessità di un’America sempre più spiazzata in Medio Oriente, garantiscono però a Teheran un futuro promettente dai risvolti tutti da seguire.