Il 2017 è l’anno elettoralis. Si cerca uno spiraglio all’inesorabile declino dell’attuale modello di unione continentale, già avviato lungo i canali della Politica Economica e dell’autoconservazione culturale.
È bastato che l’olandese Rutte sopravvivesse per rilanciare le velleità di un sistema che la maggior parte dei cittadini europei ormai non vuole più. Una sopravvivenza a dire il vero resa possibile dalla linea dura adottata contro la Turchia di Erdogan, più strumentale al voto che coerente con i principi liberal cari agli europeisti olandesi.
Anche se dalle elezioni in Olanda emerge un quadro disastroso per i partiti storici, gli ambienti filo-Bruxelles hanno ripreso comunque vigore e il timone dei media conformisti è rimasto sulla stessa rotta con rinnovata convinzione: chiunque sia solo sospettato di non essere allineato al pensiero unico euroglobal, finisce dietro la lavagna.
Le misure adottate dagli editori in questi casi spostano l’asse della comunicazione dall’informazione alla propaganda.
Il processo non è nuovo ma subisce delle accelerazioni in concomitanza con gravi scossoni politici. Un salto netto nei contenuti della comunicazione è stato fatto ad esempio il 9 novembre, quando Trump è diventato Presidente ma al tempo stesso anche Belzebù.
Una rassegna mirata sulla stampa italiana, europea e americana degli ultimi 5 mesi rasenta il comico: tranne rare occasioni, non c’è stata ora del giorno in cui il tycoon newyorchese non sia stato messo alla berlina. Da metà marzo, hanno iniziato a comparire addirittura migliaia di civili uccisi dai bombardamenti USA in Siria. Su quelli dei sei anni precedenti, ovviamente il silenzio assoluto.
Le accuse a Trump sono tante, si sa. A fregarlo sono il maschilismo endogeno, la passione per i muri, il menefreghismo ecologico, il ducismo politico, il taglio di capelli, la moglie bona, l’assenza di immediate prospettive vegane, il conto in banca, eccetera eccetera…
Tutto però rientra nel carniere d’indignazione del bravo europeista, più disposto ad arrabbiarsi per una mano sul culo di una donna che per un finanziamento ad un gruppo jihadista salafita.
Pur indignato a morte, il coscienzioso statista europeista si preoccupa invece delle scelte in politica estera di Trump, nel mirino già ai tempi della campagna elettorale. L’aver tifato Brexit e l’occhiolino a tutte le forze euroscettiche, l’entourage di Bruxelles non glielo ha proprio perdonato. Ça va sans dire o come si dice a Parigi: “e ci mancherebbe pure…”
Proprio l’accusa di antieuropeismo è l’anello di congiunzione tra Trump e il Presidente russo Putin. I due non si sono ancora mai incontrati, ma la sola idea che possano un giorno raccontarsi barzellette sull’Unione Europea manda su tutte le furie gli alti papaveri blustellati.
Putin non è mai entrato nelle grazie dell’intellighenzia al potere in Europa, bisogna dirlo. Con qualche distinzione, vale per lui quello che una certa classe politico-intellettuale nostrana pensa di Trump. Rispetto al suo omologo, nell’immaginario collettivo gli viene solo riconosciuta più abilità machiavellica e meno potenzialità in un eventuale gara di rutti.
Già all’epoca del suo ritorno sullo scranno di Presidente nel 2012, l’essere dichiaratamente cristiano, eterosessuale e bianco gli aveva impedito di far parte dei “simpatici per default” presso i salotti che contano.
Ora però la situazione è precipitata. Con la sconfitta di Hillary Clinton alle presidenziali USA, ci si aspettava una manovra di assestamento a Bruxelles, contro ogni previsione presa tra due fuochi: da una parte Washington in mano ad un cafone maschilista; dall’altra Mosca, in mano al cattivo che più cattivo non si può. Niente da fare invece: ai primi segni di russofilia dello staff di Trump (le dimissioni di Michael Flynn) e alle semplici voci di un possibile ripensamento delle sanzioni alla Russia, l’Unione ha risposto rinnovandole per altri sei mesi e alzando ancora di più il tono.
Nei dibattiti politici il ruolo ufficiale del presidente russo ormai è quello dell’anti-Bruxelles (Antonio Padellaro su La7 il 26 marzo). Non se ne esce: le élite europee e le loro voci mediatiche rimangono legati all’establishment sconfitto in America il 9 novembre.
La necessità di sopravvivere in un anno decisivo (elezioni francesi, elezioni tedesche) ha spinto i fronti europeisti a serrare ancora di più i ranghi in un gioco al rilancio. Se prima Putin era l’”uomo forte” che non piace agli ultras della democrazia buonista, oggi è dichiaratamente ritenuto un nemico dell’Unione Europea e un sostenitore di ogni partito euroscettico che si muova nella galassia. Dopo le accuse di hackeraggio in favore di Trump, sono arrivate quelle di appoggio a determinati circoli politici aventi lo scopo specifico di destabilizzare l’Unione Europea. Come se non bastasse la stessa Unione Europea a destabilizzarsi da sola…
L’accusa è ripresa dal Telegraph il 16 gennaio scorso (poi riportata anche dall’Economist) e cita fonti d’intelligence americane. Putin starebbe finanziando un po’ tutti: da Alba Dorata a Tsipras, dalla Lega al Movimento 5Stelle, dagli ungheresi di Jobbik all’UKIP britannico. Ovviamente non manca il Front National di Marie Le Pen, che per dimensione e per le elezioni imminenti fa più rumore di tutti. Manca solo Topolino, poi ci sono praticamente tutti.
L’isterismo è alle stelle. Basta fare anche in questo caso una breve rassegna stampa. Il caso Navalny (che caso non è…) sta facendo più rumore di quanto le cosiddette opposizioni russe si potessero immaginare. Bernard Guetta su Internazionale si lancia addirittura nell’analisi di una perdita di consenso di Putin presso il ceto medio. Ovviamente non può mancare il tuttologo Saviano, che dall’alto della sua incompetenza ne approfitta per incorniciare qualche luogo comune sulla democrazia.
Per la cronaca Navalny non è leader di nessuna opposizione numericamente rilevante; gli arresti di domenica a Mosca sono stati effettuati sulla base di una mancata autorizzazione a manifestare, aggirata appositamente per avere cassa di risonanza (e finanziamenti) dall’Occidente antirusso.
Sondaggisti indipendenti danno al presidente russo oltre il 60% dei consensi, ma nessuno ne parla. Sui principali quotidiani italiani viceversa, in sole 48 abbiamo contato 34 articoli (dati Difesa Online) che parlano di Putin come tiranno in disgrazia, pericoloso per l’Europa. Evidentemente o il Cremlino finanzia le persone sbagliate, o in giro si dicono un mucchio di balle architettate ad hoc.
Questione di numeri o semplicemente di buon senso. A proposito di democrazia e di consensi val la pena fermarsi un attimo: forse in Europa, intesa come famiglia di popoli che vive sotto il tetto istituzionale di Bruxelles, si dovrebbe fare più attenzione ai meccanismi interni che a quelli degli altri. Sarebbe carino sapere ad esempio con quale trasparenza opinion maker come Saviano finiscano per occupare posizioni strategiche nei media. O per rimanere ai gangli fondamentali della democrazia, quali investitura popolare abbiano le voci che spesso parlano a nome di intere nazioni.
Mentre ci si ferma a riflettere su chi sia eletto da chi e chi rappresenti, potremmo allora anche pensarci su una prospettiva di lungo periodo, cercando di immaginare anche un futuro orizzonte geopolitico.
Per chi l’Europa l’ama davvero, sarebbe già moltissimo.