Negli ultimi trent’anni sono cambiate tante cose. Per capirlo basti pensare che a Sanremo nell’85 c’era Zucchero, nel 2015 c’è stata Amara… Con la crisi anche i nomi stringono la cinghia. Nonostante i mala tempora alcuni fatti sono rimasti uguali. Trent’anni fa usciva il film Ritorno al futuro e i terroristi col pulmino Volkswagen che sparavano al professore Doc erano libici. Non era un caso: per tutti la Libia era uno Stato canaglia, sponsor di chiunque avesse un conto aperto con USA e Gran Bretagna.
Si parla di oggi, ma anche quelli erano tempi caldi, caldissimi. L’aprile dell’86 dice tutto: gli Americani bombardarono Tripoli e Craxi salvò la vita a Gheddafi avvisandolo per tempo; 24 ore dopo due missili libici caddero (più o meno) su Lampedusa; ancora qualche giorno e ci fu il dramma di Chernobyl.
Dopo trent’anni Gheddafi, Craxi e Reagan sono morti e lo scenario di oggi continua ad essere critico. La bomba demografica africana ha prodotto molti milioni di disperati e la cara estinta Europa qualche statista in meno e qualche trattato demagogico in più. Così va il mondo.
La Libia intanto rimane lì che abbraccia il Golfo della Sirte. Sempre lì ma con due governi al prezzo di uno. Due governi in guerra ma uniti dal fatto che non controllano il territorio.
A Tripoli ci sono gli islamisti finanziati sotto gli occhi ipocriti di tutti da Turchia e Qatar. A Tobruk (tanto cara a Rommel e ai fortini a cui ha dato il nome) c’è Abdullah al-Thani che oltre a ricordare vagamente Morgan Freeman può solo puntare ad essere il premier filooccidentale di un Paese che non esiste.
In Libia c’è l’anarchia. Un disastro totale, anzi Total come dicono i Francesi...
Dopo Romani, Bizantini, Arabi, Turchi e Italiani, alla Libia tocca anche questa pagina. Sì, perché si può dire senza reticenze: noi ormai siamo il passato. Se Scipione e Giolitti rappresentano due esempi di proiezione, la ritirata nel ’43 e la cacciata del ’70 sono il simbolo di un’uscita di scena con le orecchie basse. L’Italia, fatto salvo un tentativo di trent’anni fa ai tempi dell’Achille Lauro, è rimasta fuori dai giochi del Mediterraneo.
I chiacchiericci sulla missione Onu, su interventi e strategie, sul ruolo dell’Italia in Libia sono venticello di passaggio, pastura da homo medius stordito da tante parole confuse: migranti, clandestini, sbarchi, tolleranza, terrorismo, Isis, guerre, fuga, Africa, barconi, scafisti, buoni, cattivi, razzismo, integrazione…
Una delle verità tristi è che se la politica estera italiana è morta da anni, quella in particolare che si rivolge al Mare Nostrum è già sepolta. È un dato epocale, avvilente ma purtroppo incontestabile.
Se sia piccolezza, volontà ideologica, arroganza di qualcuno, incompetenza di qualcun altro o solo la fiaccola della civiltà che ormai arde altrove, poco importa: lo sguardo a Sud così naturale e utile per bilanciare le spinte continentali di Bruxelles, sembra ormai più un retaggio che una prospettiva.
Guardiamo alla Libia e ancora una volta qualcosa ci sfugge di mano e ci passa sopra, anzi in mezzo. Nonostante storia e geografia, assistiamo inerti senza nemmeno capire. L’Africa esplode e noi di spalle, passiamo il tempo tra liti di pianerottolo, ruberie di condominio, tolleranze prêt-à-porter blandite in salotti radical e strategie da domeniche pomeriggio in tv.
In attesa che i morti aumentino e che l’Occidente finisca di implodere pensando al modo migliore di suicidarsi, ci mettiamo in coda, aspettando quello a cui ci si dovrà adattare senza decidere. Senza nemmeno pensare di farlo.
Vedremo cosa succederà. Che il volano di un nuovo peso internazionale sia una botta di fortuna in fondo, non è nemmeno da escludere.
Il Mediterraneo intanto continua ad ospitare barche, sbarchi, soprusi, dolori, sangue e furberie come fa da millenni. Noi ci siamo dentro, nella buona e nella cattiva Sirte…
Giampiero Venturi