Albania-Serbia Cap.2: il Kosovo sospeso (fine)

(di Giampiero Venturi)
13/10/15

Dalla cittadina serba di Raška, si capiscono tante cose. Innanzitutto che non bisogna dire la parola “border” con riferimento al Kosovo, distante 9 km a sud, lungo le curve del fiume Ibar.

Per i serbi non c’è soluzione di continuità e la segnaletica non annuncia frontiere. Il confine non esiste perché il Kosovo per i serbi è e rimane Serbia.Che qualcosa non torni però lo dicono il traffico più raro e la qualità della strada, via via meno curata. Quando arrivano la fila di camion, i prefabbricati della dogana e i blindati ONU, arriva il Kosovo e ognuno recita la sua parte.

In base agli accordi del dicembre 2013 i serbi hanno accettato i controlli di una polizia kosovara purché sia di etnia serba. Al posto di controllo di Jarinjë (noto come Gate 1) insieme ai doganieri c’è sempre un funzionario dell’Eulex, l’organismo UE erede dell’UNMIK, amministratore del Kosovo per conto delle Nazioni Unite dopo la guerra. Fino al 2012 il valico era considerato ad alto rischio attentati.

I serbi non mettono il timbro in uscita sul passaporto. In entrata invece annullano quello kosovaro. È tutto surreale, ma anche questa è Europa.

Il Kosovo del nord (geograficamente la Metochia), secondo accordi non scritti è rimasto in mano ai serbi. Sovvenzionati da Belgrado per mantenere il presidio su una terra considerata sacra, vivono tra colline spigolose sospese nel tempo. Vale ancora il dinaro.

Da Gate 1 in poche decine di km tra buche sull’asfalto, erba incolta, bandiere serbe, check point di filo spinato e blocchi di cemento, si arriva Mitrovica.Tra Leposavic, Zvenac e i monasteri ortodossi di Socanica e Sokolica si respira un’area rigida. Si leggono ancora scritte contro la NATO, che nei mesi di guerra del ’99 arrivò a compiere anche 600 incursioni al giorno contro la Vojska e i paramilitari serbi. Da  queste parti tra il ’98 e il ’99 i metodi spicci dei “berretti rossi” della JSO, la forza speciale serba nata dopo lo scioglimento delle Tigri di Arkan, sono diventati storia.

Parlare con qualcuno di stragi e crimini di guerra è difficile. Alle atrocità compiute dai serbi, si sono sommate le rappresaglie albanesi dell’UÇK nella contropulizia etnica partita a guerra finita. Sono migliaia le persone che mancano all’appello e il Tribunale dell’Aia, poco sereno sulla faccenda Kosovo, latita.

Una volta entrati in Kosovo dal nord, parlare è inutile. Dal ’99 tutto è rimasto congelato. I rancori, laddove possibile, si sono induriti. In una terra dove è impossibile dimenticare, al tempo stesso nessuno ama ricordare.

La guerra del Kosovo, infame intreccio di violenze disumane, oggi si è trasformata in un silenzio che non lascia vuoti. Un nebbioso clima di povertà rurale si fa raccontare in piccoli particolari.

Girano molte auto senza targa: chi entra nel territorio controllato dai serbi toglie le nuove placche kosovare per rispetto o per evitare guai. Quella delle targhe è una questione geopolitica a sé. Una volta quelle di Pristina iniziavano con PR e quelle di Prizren con PZ. Dopo l’autoproclamata indipendenza del Kosovo, portano le sigle 01 e 04. Nel Kosovo settentrionale le vecchie targhe circolano ancora. Sembra di essere rimasti a trent’anni fa.

Da metà Mitrovica in giù spariscono le bandiere serbe e compaiono scritte in albanese: l’UÇK diventa un’icona. Anche gli umori cambiano. Più si scende a sud e più la guerra diventa un’ombra lontana, da celebrare senza appesantire il presente.

Nonostante la sconfitta a pallone con la Serbia, la gente albanese ha festeggiato la qualificazione ad Euro 2016. L’evento segue il corso dei tempi: l’Albania, per decenni prigioniera di uno stalinismo grottesco, oggi è nelle grazie delle multinazionali e dei poteri forti che la stanno trasformando. Anche il calcio si è adeguato. Dal nulla, Tirana ha cominciato a esportare giocatori e ora si prepara a sfilare tra i grandi d’Europa.

Il Kosovo si sforza per seguire il nuovo ritmo imposto dagli alleati d’oltreoceano: tutta la regione è un cantiere a cielo aperto, tra polvere, camion, e politica che corre. Con l’aiuto USA il Kosovo si è riempito di SUV, di strade asfaltate e di benzinai. Nella regione meno carrozzata della ex Jugoslavia, grandi stazioni Kosovo Oil e altre filiali di società globali spuntano come funghi. Il Kosovo stesso a tratti sembra una filiale: dal dinaro si è passati all’euro, anche senza corso ufficiale. Gente semplice, dal cuore grande e dall’ospitalità immensa, si ritrova così catapultata in un mondo nuovo, preda di un’ebbrezza importata.

Le difficoltà però sono immense. Soprattutto fuori dalle aree urbane il Kosovo indipendente boccheggia. 55% di disoccupazione, un reddito medio da 150-250 euro al mese e il PIL legato alle rimesse degli emigranti, sempre più numerosi. L’arma demografica che ha permesso agli albanesi di fare lo strappo a Belgrado, rischia di scaricarsi. La Serbia stessa incentiva il passaggio attraverso il suo territorio di migranti kosovari allo scopo di “svuotare” e recuperare la sua provincia scucita.

Sfila una colonna di Carabinieri dell’MSU. Sulla strada tra Pristina e Mitrovica i convogli militari sono frequenti, ma l’aria è tranquilla. Anche se la segnaletica indica ancora i limiti di velocità dei carri armati, la sfida vera del Kosovo è altro. La priorità è rimanere stabili senza affogare negli interessi stranieri: le centralissime Bulevardi Bila Klintona e Bulevardi Xhorxh Bush a Pristina la dicono lunga… Ancora di più l’American School of Kosova che si trova giusto sul viale che porta il nome di Luan Haradinaj.

Verso la fine del 2015 il Kosovo è questo: un pendolo che oscilla fra la pesante eredità politica dell’UÇK e l’eccitazione per aver scoperto l’America, in stile secondo dopoguerra italiano.

La guerra è lontana, ma per la pace vera e la prosperità bisogna aspettare ancora.

(fine)

(FOTO: autore/Vojska Srbije)

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