A partire dal febbraio 2010 le analisi del Pentagono sul crescente “pericolo russo”, sono diventate pane quotidiano.
Le sindrome del presunto allargamento a Ovest di Mosca è seguito all’allarme per la nascita della Comunità Economica Eurasiatica del 2000, atto col quale la Russia riponeva sotto la sua sfera di influenza le tessere asiatiche del puzzle sovietico.
Il dado era tratto: ufficialmente, con l’inizio dell’era Putin, la Russia usciva dagli anni ’90, doloroso tunnel tra la fine del comunismo e la nascita di un nuovo impero. I tempi in cui s’irrideva all’Armata Rotta, erede di quella Rossa, erano probabilmente finiti per dare spazio a nuovi orizzonti strategici.
Sulla base dell’annessione della Crimea del 2014, non toccare la carta d’Europa è stato il primo nuovo warning lanciato da Washington su scala mondiale. Che la Crimea fosse storicamente russa e che dalla riunificazione della Germania in poi la NATO abbia inglobato de facto il Patto di Varsavia, tre ex repubbliche sovietiche e ci abbia provato con almeno altre due, fingiamo di non saperlo.
A tale proposito è curioso ricordare come il rilievo dato dalla comunità internazionale alle secessioni unilaterali sia diverso a seconda dei casi: è stato mal digerito il distacco della Crimea canonizzato col referendum del 2014; è stato molto apprezzato viceversa quello del Kosovo, riconosciuto da ben 23 dei 28 membri dell’Unione Europea. Se il distinguo giuridico ruota intorno all’ingerenza di un Paese terzo (la Russia nel contenzioso Ucraina-Crimea, nessuno in quello tra Belgrado e Pristina) viene il dubbio che la mancata annessione del Kosovo all’Albania sia stata suggerita proprio per questo: rendere inattaccabile una scelta per lo più politica di Stati Uniti e UE, in barba alla Storia e alle recriminazioni di chicchessia.
Mentre bolliva la pentola ucraina, si accendeva intanto il secondo warning di rilievo mondiale: la rinascita di un profilo russo in Medio Oriente con la rinnovata amicizia tra Mosca e Damasco e il consolidamento delle ottime relazioni diplomatiche con l’Iran. La crisi siriana concretizzata nel 2013 con le minacce di bombardamento americano, proprio oggi torna sugli scudi. Per i più ingenui Latakia può essere considerata la città fenicia e romana che ha dato i natali ad Assad padre; per i russofobi è invece l’estremità di una tenaglia che a partire dalla Flotta del Mar Nero, scende per il Caucaso e accerchia la Turchia, secondo esercito NATO in assoluto.
Ingenuità o sindrome russa che sia, è innegabile che dall’inizio del primo mandato Putin Mosca continui a giocare con la geografia, seguendo i suoi interessi geopolitici anche attraverso l’uso dello strumento militare. I primi passi importanti, prova generale per un ritorno sulla scena globale, sono stati mossi nel Caucaso, giardino di casa in disordine da sempre ma divenuto ingestibile per 15 anni. Significativi due momenti:
- La guerra lampo del 2008 nella ex sovietica Georgia ammaliata dalle sirene UE e dalle armi di Bush, ma annichilita dai carri russi sulla strada tra il tunnel di Roki e la periferia di Tbilisi. Oggi a dispetto di chi si agita, la Russia controlla l’Abcasia e un altro tratto dell’anello Mar Nero.
- Nel 2009 la chiusura ufficiale della Seconda guerra cecena, che ha riassettato in modo stabile il Caucaso e il sud della Federazione. Per quanto discutibile sia l’attuale classe dirigente di Grozny, due dati sono inoppugnabili: la Cecenia è tornata nell’ovile e l’indipendentismo islamico sradicato.
Il mondo ovviamente non è stato a guardare, anzi. Sotto la regia di Washington i vecchi spettri hanno ripreso a danzare. Tra uno warning e l’altro, tra sanzioni e ribassi del petrolio, la sindrome russa in quattro e quattr’otto è tornata di moda, con tutto il battage etico dei suoi tempi migliori. L’orso dell’Est torna a fare il cattivo e Putin diventa il presidentissimo che si dimena all’esterno per coprire i buchi di una finta democrazia.
Alla luce dei nuovi equilibri geopolitici del pianeta bisognerebbe però tornare a riflettere su Socrate e capire quale sia il modello di democrazia a cui si fa riferimento. La dicotomia manichea buoni/cattivi probabilmente ha perso di fascino. Non sarebbe assurdo quindi pensare ad una nuova Yalta, magari ignorando che la città, per burla della geografia, si trova giusto in Crimea…
Se la Russia va alla guerra o meno, quale che sia la guerra, importa a molti. Ciò che più conta però sono le conseguenze del disorientamento degli Stati Uniti, costretti ad adattarsi a nuovi assetti geopolitici mondiali più in fretta di quanto si pensasse.
Dopo vent’anni di dominio unipolare, è naturale e comprensibile che a Washington ci sia tensione per la rinascita di un antagonismo credibile. A maggior ragione se russo. Evitando piroette col Diritto Internazionale o il ricorso a codici etici unilaterali, sarebbe congruo renderlo palese. Tutelare i propri interessi del resto, è sacrosanto e legittimo.
Comparsa più, comparsa meno, le trame della Storia tornano sempre, come i soggetti di film famosi. Se l’esperienza ci insegna che gli attori importanti non cambiano mai, è il caso di chiedersi se valga lo stesso per i ruoli da assegnare. I film tutti uguali alla fine non li vede più nessuno.