L'esercito turco è in Siria. Dal punto di vista militare il fatto non ha particolari rilievi. Armi turche e l'appoggio di Ankara ai miliziani turcomanni in territorio siriano non sono mai cessati dall'inizio della guerra.
Il dato politico della scelta di intervenire ufficialmente oltre confine con truppe regolari è viceversa enorme, soprattutto se coordinato con l'annuncio del ripristino delle relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele.
Chi segue la rubrica "Tempi Venturi" conosce l'attenzione riposta da Difesa Online agli equilibri ruotati intorno all'asse Tel Aviv-Ankara, incrinato a partire dal 2010 ma comunque decisivo per capire da che parte tira il vento in Medio Oriente.
La decisione turca di combattere apertamente i curdi dell'YPG in territorio siriano (dietro il pretesto della lotta all'ISIS) non è un fulmine a ciel sereno. Dietro all'apparente azzardo turco c'è un ragionamento lungo due anni e un giro di contatti tra cancellerie iniziato nell'autunno 2015, poi accelerato dopo i successi curdi nel nord est della Siria di inizio estate. Le modalità diplomatiche e i corridoi politici lungo cui si è sviluppata l'azione sono però inconsueti. L'iniziativa turca è stata concordata con Mosca a giugno e "telegrafata" in anticipo ad Israele, con invio in copia cieca a Damasco. L'unico indirizzo mancante nella virtuale missiva di Ankara è Washington, il secolare alleato dei turchi per il blocco euroasiatico.
Dei motivi per cui le forze turche sono in Siria abbiamo gia scritto in abbondanza. Giova qui ripetere solo che Erdogan e il suo revanscismo ottomano non possono permettersi il contagio di una ritrovata euforia curda tra le mura domestiche.
Sul perché i turchi abbiano forzato la mano sfidando la pazienza americana è bene invece riflettere.
Gli USA appoggiano i curdi ufficialmente fin dall'inizio della fantomatica campagna militare contro lo Stato Islamico. L'alleanza è rimasta sulla carta per più di un anno, proprio a causa delle pressioni di Ankara, irritata dal possibile potenziamento dei curdi siriani. Lo stand by americano, a sua volta criticato dagli scalpitanti curdi, si è sbloccato ad aprile quando la riconquista delle forze di Assad e dei loro alleati è diventata troppo imbarazzante per Washington. Forze speciali USA sono così entrate in Siria e una pioggia di aiuti ha iniziato a cadere sui miliziani curdi dell'YPG e sulle forze miste curdo-arabe del SDF.
Ankara, alle prese con un riassetto politico interno dai tratti cupi, si è trovata così ad un bivio: continuare ad innervosire l'America tutelando i suoi interessi immediati o cogliere l'occasione per tornare sotto l'ombrello del Grande Alleato?
Tre fattori hanno inciso in modo sostanziale:
- la possibilità di ricucire i rapporti con Israele, ex grande amico della Turchia, da alcuni anni profondamente seccato dall'amministrazione Obama;
- la necessità di riallacciare contatti seri con Mosca, con cui era arrivata in autunno ad un passo dalla guerra;
- la volontà di rilanciare in modo più indipendente su scala regionale ed extra regionale una politica estera ritenuta poco ambiziosa dai piani alti sul Bosforo.
L'occasione è stata fornita dal tentato golpe del 15 luglio, che ha gettato ombre sui rapporti reali fra Ankara e Washington.
In previsione di un cambio di inquilino alla Casa Bianca, Erdogan ha giocato d'azzardo, accusando più o meno apertamente gli Stati Uniti di aver tramato contro di lui. Il presidente turco ha alzato i toni sapendo di avere le spalle coperte: sia Putin che Nethanyau hanno tutto l'interesse a mettere in imbarazzo l'attuale politica mediorientale degli Stati Uniti. Previo avviso in sordina, la decisione di entrare in Siria, pronta da mesi ma col vento a sfavore, è stata definitivamente presa. Mai momento è stato più propizio. La mossa della Turchia cade in un momento di transizione di equilibri e oltre a suscitare apparente clamore non può avere effetti collaterali seri.
Fatta eccezione per le infide monarchie del Golfo e per una poco consistente Giordania, nessun Paese del Medio Oriente rappresenta oggi un porto sicuro per Washington: nemmeno la dépendance ammaccata Iraq e l'Egitto del camaleontico Al Sisi.
Con ogni probabilità quindi, gli USA molleranno la causa curda, mai stata centrale per il Dipartimento di Stato. Tenersi buona una recalcitrante e riottosa Ankara rimarrà comunque il bottino più grosso anche per il futuro presidente USA.
Resta da vedere quanto e come azzarderà ancora Erdogan. La Turchia a tutti gli effetti rimane un Paese NATO, ma il vento sul Bosforo non è più lo stesso.
(foto: Türk Silahlı Kuvvetleri / 2a foto - fotogramma ronahi TV)