Dopo il secondo abbattimento nell’arco di due giorni di velivoli siriani da parte delle forze della Coalizione a guida USA, il dubbio sulla strategia di Washington è venuto anche ai più convinti atlantisti. I sospetti su chi sia il vero nemico degli USA in Siria hanno già avuto risposta in tempi, modi e contesti diversi. L’innesco geopolitico derivato dalle azioni di forza contro aerei siriani merita però un’attenzione a parte, in virtù delle contromisure adottate dall’alleato numero uno di Damasco: Mosca.
La reazione russa all’abbattimento del Sukhoi siriano il 18 giugno sui cieli di Resafa è stata veemente. Immediato il blocco del memorandum sulla prevenzione di incidenti e sulla sicurezza nei cieli in Siria. Mosca accusa gli Stati Uniti di un gioco a dir poco torbido: attaccare l’ISIS e al tempo stesso le forze che lo combattono (i siriani) sembra molto più di un equilibrismo. Senza contare che le armate siriane sono appoggiate direttamente dal Cremlino sia in cielo che a terra e il rischio di scontro diretto tra americani e russi, almeno sulla carta, aumenta ogni giorno di più.
In realtà ai russi la partita a scacchi conviene molto di più di una prova di muscoli con un interlocutore potente, ma molto confuso. La strategia dell’attesa aveva premiato Mosca anche quando furono i turchi ad abbattere un caccia russo nel novembre del 2015. Puntare su un raffreddamento di Ankara col fronte Atlantico si è rivelato nel tempo un investimento politico ben più proficuo di una risposta militare immediata, senza effetti strategici e comunque molto rischiosa.
Gli Stati Uniti, schiacciati tra una naturale logica di potenza e un’eredità geopolitica disastrosa in Medio Oriente, devono ancora trovare una linea di condotta stabile e credibile all’interno della guerra siriana. Le dichiarazioni del generale Dunford, rilasciate a Washington lunedì 19 giugno, tendono tuttavia all’ottimismo. Secondo il capo degli stati maggiori riuniti USA, l’America sta lavorando diplomaticamente e militarmente per ricucire lo strappo con Mosca, cercando di ripristinare almeno l’intesa sulla sicurezza nei cieli siriani.
Dopo meno di 24 ore dalle dichiarazioni, un F-15 abbatte però un drone siriano di fabbricazione iraniana sui cieli di Al Tanf, nell’area che la Coalizione aveva destinato alla buffer zone fra Iraq, Giordania e Siria, controllata in condominio con i ribelli anti Assad. Con una mano si chiede pace, con l’altra si tira un pugno.
In sostanza gli USA chiedono collaborazione alla Russia, deus ex machina delle importanti vittorie siriane degli ultimi mesi, ma al tempo stesso si aggrappano all’unico obiettivo attuale possibile: occupare più territorio siriano possibile a est dell’Eufrate, prima di riflettere sul futuro di Assad.
Il fiume Eufrate, come confine naturale interno ad una Siria ormai dilaniata da sei anni di guerra, è un ritornello già sentito. Nelle stesse dichiarazioni del Ministero della Difesa russo a ridosso dell’abbattimento dell’aereo siriano, il riferimento geografico è stato chiaro: “tutti gli aerei della Coalizione operativi a ovest dell’Eufrate, sono considerati obiettivi tracciabili e identificabili”.
Dietro il semplice dispaccio ci sono importanti rilievi geopolitici. Agli Stati Uniti, che sono rientrati nella partita siriana attraverso la carta curda, viene indirettamente riconosciuta un’area di influenza tra l’Eufrate e il confine iracheno, corrispondente al Kurdistan siriano occupato dalle Syrian Democratic Forces. Si prende atto cioè degli sforzi militari del fronte curdo-arabo contro lo Stato Islamico, anche per non incoraggiare un dramma ancora maggiore, in parte già cominciato: lo scontro aperto fra miliziani appoggiati dagli USA e forze armate siriane.
L’imbarazzo americano rimane comunque enorme, alla luce dall’improvviso svuotamento strategico delle postazioni acquisite nel sud della Siria (Al Tanf, confine fra Iraq e Siria), dovuto al ricongiungimento delle truppe di Assad con la frontiera irachena. Saltata l’idea di un cuscinetto tra sciiti iracheni e Siria, alla domanda “cosa facciamo adesso in Siria?” il Pentagono a tutt’oggi non può e non sa rispondere. Le notizie che arrivano dalla Siria continuano a fornire dati proprio in questa direzione.
I siriani continuano ad avanzare contro il Califfato avvicinandosi a Deir Ezzor da più direttrici puntando a riconquistare ampie fette del Paese e isolando oltre l’Eufrate tutto il fronte SDF. Se Damasco riuscisse a liquidare in tempi brevi le sacche di resistenza intorno ad Hama e nei sobborghi di Damasco (l’offensiva su Jobar è in corso), rimarrebbero fuori dal controllo del governo centrale solo il Governatorato di Idlib al confine con la Turchia e una parte di quello di Dar’a, al confine con Israele. Il primo per ora è abbandonato come serbatoio della ribellione islamista; sul secondo si continua a combattere. Anche le Syrian Demcoratic Forces continuano ad avanzare verso sud, ma la variabile pericolosa per gli Stati Uniti rimane il ruolo della Turchia.
Per “difendersi dalla minaccia curda” Erdogan in queste ore continua ad ammassare truppe nel nord della Siria. Ankara non ha mai digerito l’aiuto strumentale USA alla causa curda e un’eventuale escalation fra turchi e SDF (in questo caso nella loro componente YPG), renderebbe secondaria la campagna delle milizie filo USA oltre Raqqa. La sensazione generale è che Washington tiri a campare, aspettando che succeda qualcosa. Il ritorno maggiore verrebbe da una resistenza a oltranza dei ribelli anti Assad e paradossalmente anche dalla resistenza dell’ISIS.
L’impegno e il logoramento del fronte siro-russo-iraniano a tutt’oggi è l’unico mezzo per aumentare il peso politico della lotta americana al terrorismo jihadista e per giustificare la presenza USA nel Paese arabo.
(foto: U.S. Marine Corps / MoD Fed. russa / Türk Silahlı Kuvvetleri)