La decisione del governo turco di fare della Basilica di Santa Sofia una moschea è parte del processo di reislamizzazione del Paese imposto con forza da Erdogan dopo il fallito golpe militare del luglio 2016.
La Turchia laica con le Forze Armate a garanzia della modernità voluta da Kemal Ataturk è morta, ma dalle sue ceneri è nata una potenza ambiziosa che deve nascondere le contraddizioni del suo processo di trasformazione dietro la coltre dei successi nell’arena internazionale. La vicenda di Santa Sofia ha infatti riportato al centro del dibattito pubblico la Turchia e la sua politica estera aggressiva, improntata alla ricostruzione della vecchia sfera d’influenza ottomana nel Mediterraneo dalle coste levantine fino alla Libia senza escludere il Corno d’Africa.
Le vicende libiche risentono in modo particolare della impostazione neo-ottomana della politica di Erdogan e negli ultimi giorni lo stridente contrasto con l’Egitto è la cartina al tornasole delle idee che circolano nel milieu turco e filo-turco a Tripoli. La vittoria militare di Sarraj su Haftar, la liberazione della Tripolitania ed il conseguente assedio cui è sottoposta Sirte hanno inasprito la situazione sul campo e sparigliato le carte nelle cancellerie. Questo perché nessuno – anche tra gli addetti ai lavori più quotati – s’aspettava un tracollo così repentino delle forze di Haftar.
Per tutta risposta pare che siano stati aerei emiratini a colpire la base turca di al-Watiya, ad ovest di Tripoli, il 5 luglio scorso senza causare vittime ma lanciando un chiaro messaggio ad Ankara: la guerra in Libia non è stata ancora vinta e quindi i turchi non possono sentirsi liberi di comportarsi come colonizzatori. Se da parte degli alleati NATO della Turchia, con la Francia in testa, lo schieramento militare turco in Libia è considerato insostenibile o, secondo la linea (fin troppo) morbida adottata da Stati Uniti ed Italia non gradita e giudicata come una pericolosa interferenza, per i nemici dichiarati di Ankara (Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita su tutti) l’obiettivo dichiarato è scacciare i turchi dalla Libia.
Una presenza militare massiccia dei turchi in posizione strategica del “quadrante conteso” del Mediterraneo – mare al centro delle linee di faglia geopolitiche – non potrebbe essere accettata dalle due potenze sunnite, e tantomeno dall’Egitto, visti i massicci interessi energetici e politico-religiosi che in Libia si stanno ridefinendo. Non a caso nel momento in cui la Direzione per le Comunicazioni della Presidenza turca ha dichiarato che al-Jufra (la base aerea che funge da supporto nella difesa di Sirte e da perno per eventuali azioni controffensive dei cirenaici) è stata inserita tra gli obiettivi militari da colpire, la reazione del Cairo è stata particolarmente violenta con al-Sisi che ha tracciato la sua personale “linea rossa” per un eventuale intervento diretto dell’Egitto nel conflitto libico. Le esercitazioni delle truppe egiziane che quotidianamente si svolgono alla frontiera tra i due Paesi sono un messaggio da non sottovalutare ma che politicamente ha il chiaro scopo di mettere in mostra il potenziale bellico del Cairo come fattore deterrente a fronte di eventuali offensive del GNA sostenuto dai turchi che possano arrivare a lambire la “mezzaluna petrolifera”.
Per lanciare un ulteriore segnale, nei giorni scorsi un raid aereo tripolino ha colpito e messo fuori uso i dispositivi antiaerei Pantsir della compagnia di sicurezza privata russa Wagner (che sostiene il governo di Tobruk) causando anche la morte di tre mercenari ad al-Jufra e Sukna. Le fonti ufficiali del LNA hanno negato il fatto che i tripolini abbiano colpito al-Jufra accusando la Turchia di aver diffuso fake news ad uso e consumo dei media per alimentare il senso di insicurezza generale e, soprattutto, per creare a tavolino una risposta immaginaria al bombardamento di al-Watiya.
Il maresciallo di Libia ed ex uomo forte della Cirenaica Khalifa Haftar ha dichiarato in conferenza stampa che egli continuerà a difendere la Libia dal colonialismo turco e che la Turchia continua a portare illegalmente nel Paese ufficiali, mercenari ed armi per combattere contro il popolo libico. Il tema anti-coloniale resta un argomento caldo della comunicazione haftariana che punta a rappresentare il governo di Tripoli come eterodiretto ed al soldo delle potenze straniere. Tutto questo mentre la National Oil Company annuncia un nuovo blocco delle esportazioni petrolifere dopo il ripetersi di sabotaggi degli oleodotti e degli impianti ad opera delle milizie cirenaiche tornate, in questa fase di crisi, a riproporre la tattica del ricatto contro la NOC e di fatto contro compagnie ed acquirenti internazionali.
L’esecutivo di al-Sarraj è stato intanto ammonito dalla Missione di Sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) per gli scontri tra gruppi armati appartenenti alle milizie tripoline nel sobborgo di Janzour. UNSMIL ha invitato pertanto il governo di Tripoli ad avviare una “efficace e coordinata riforma del settore della sicurezza, di smobilitazione e reinserimento” dei miliziani dopo la rottura dell’assedio di Haftar.
Il monito della missione ONU è figlio della teoria sulla soluzione politica del conflitto libico e non considera quanto possa essere complicato per Sarraj smobilitare i gruppi armati che lo sostengono e senza i quali non sarebbe più al potere da un pezzo (e che de facto gestiscono l’ordine pubblico a Tripoli). La forza e la debolezza del governo tripolino risiedono entrambi nel potere ramificato – ed in alcune zone legato a doppio filo con la criminalità sia comune che organizzata – delle milizie, i veri potentati della Libia post-Gheddafi ed interlocutori con i quali si deve dialogare da una posizione di parità e che andranno a costituire in futuro l’ossatura delle ristrutturate forze armate libiche e degli apparati statale e parastatale.
Se le prime indagini sembrano collegare la sparatoria di Janzour ad un regolamento di conti per il controllo dei piccoli racket criminali della capitale, è anche vero che la vittoria militare ha portato alla luce, come effetto collaterale, la volontà tra i signori della guerra ed i capitribù delle milizie tripoline di riequilibrare il proprio potere in base agli sforzi fatti nel corso dell’ultima fase del conflitto, quella terminata davanti a Sirte. Un passaggio che non sarà indolore e con il quale anche la Turchia dovrà fare i conti se vorrà mantenere una duratura influenza nel Paese.
Foto: Türk Silahlı Kuvvetleri / web