“In materia di esercito e similari siamo notoriamente scadenti e, quando ci chiamano a partecipare a missioni all’estero, poi ci affidano ruoli secondari , tipo quello una volta assegnato alle crocerossine. Infatti la Costituzione italiana non prevede che i nostri soldati prendano parte a battaglie offensive, a loro è consentito soltanto proteggersi”. Questo il giudizio sulle forze armate espresso su “Libero” del 3 aprile da Vittorio Feltri. E la mente è volata ai numerosi militari italiani morti nelle missioni all’estero dal 2004 ad oggi. Il sangue mi è salito alla testa e mi ha fatto ricordare la frase con cui 23 anni fa chiudevo la mia carriera militare dimettendomi dall’esercito: “…non posso che fare riferimento a quanto disse il generale Cambronne a Waterloo il 18 giugno 1815: Merde!”
A farmi esprimere in questi termini coloriti, ripresi il 21 giugno del 1997 da quasi i tutti quotidiani nazionali, era stata la proposta Manconi-Paissan-Bertinotti-Anselmi di sciogliere la “Folgore” per le accuse (a scoppio ritardato e poi rivelatesi infondate) di un miserabile che dietro compenso accusò di violenze sessuali alcuni commilitoni che avevano operato in Somalia, in quella missione in cui la “Folgore” aveva pianto tredici morti e un centinaio di feriti.
Tutto sommato l’atteggiamento della politica e della stampa nei confronti delle forze armate da allora non è cambiato.
Premesso che “il ruolo delle crocerossine” dalla Prima Guerra in poi è sempre stato quello di operare anche in prima linea, lo spunto per parlare di “ruoli secondari” mi è offerto dal ricordo di uno dei soldati caduti nelle missioni all’estero: si chiamava Luca Sanna e a lui mi legavano comuni origini: entrambi nati nel cuore della Sardegna, in due paesini distanti pochi chilometri l’uno dall’altro, lui a Samugheo ed io a Ortueri. Nel gennaio del 2011, quando Luca fu ucciso in Afghanistan, per i parenti fu dura convincere il padre Antonio che valeva la pena di sopravvivere alla morte del figlio, ed io cercai di essere di aiuto promettendo ad Antonio di andare a Bala Murghab, dove il figlio era morto e lì avrei lasciato un pugno di terra di Samugheo.
L’occasione per mantenere la promessa si presentò nel dicembre successivo, quando il presidente della Sardegna, Ugo Cappellacci, decise di portare il saluto dell’isola alla brigata Sassari impegnata in Afghanistan. Nonostante fossi in pensione da oltre dieci anni chiesi al presidente di “fargli da scorta” nel suo viaggio afgano, e fu così che mi ritrovai a poggiare ancora una volta le chiappe, come scriverebbe Feltri, sugli scomodi seggiolini di un C130.
Atterrammo a Herat in un clima di allerta permanente: elmetto e giubbotto anti-proiettile indossati e allontanarsi subito dall’aereo pronto a decollare di nuovo.
Ci accolse il generale Luciano Portolano che oltre a comandare la “Sassari” era il capo del RCW. Dopo il briefing di rito mi intrattenni con Portolano e gli chiesi come fossero andate nella realtà le cose, lì a Herat, in occasione dell’attacco sferrato giorni prima dai talebani contro la sede di una ditta impegnata nel supporto logistico del contingente; un episodio su cui la stampa nostrana era stata piuttosto vaga. Molto sinteticamente Portolano mi disse che, appena saputo dell’attacco e comunicato al gruppo dei dipendenti civili di barricarsi nella stanza blindata predisposta nell’edificio, una squadra di soldati convinse i talebani a desistere dal loro proposito. L’operazione fu molto rapida ed efficace e gli aspiranti martiri realizzarono la loro aspirazione. Tra i 31 dipendenti della ditta invece non ci fu alcuna vittima.
Portolano accennò al fatto che in Italia non si gradiva che certi aspetti delle nostre missioni all’estero fossero resi pubblici perché il soldato italiano doveva apparire sempre in versione buonista. Da quella chiacchierata e dalla prima giornata trascorsa nella base trassi la certezza del prestigio che i nostri soldati godevano, checché ne pensi la stampa nostrana, presso i militari delle otto nazionalità che costituivano il contingente e della palpabile considerazione che, in primis gli americani, nutrivano per il comandante italiano, del quale sapevo che quelli della “Sassari” tra di loro parlavano di lui come qualsiasi comandante vorrebbe. Fu per questo che alla fine della giornata mi sentii costretto a dire a quel mio successore nel comando della Sassari; “Tu vali più di me”. Una frase che io, fervente praticante del decalogo in cui Lamarmora predica ai bersaglieri la “fiducia in sé stessi fino alla presunzione”, non avevo né avrei mai più detto a nessun altro.
Il giorno dopo, attraversata una caotica Herat per raggiungere l’eliporto, decollammo per Bala Murghab a bordo di un elicottero spagnolo. Dopo un quarto d’ora di volo, portelloni spalancati e mitragliere proteso nel vuoto incollato all’arma, mi accorsi di un certo trambusto tra i membri dell’equipaggio, seguito poco dopo dal boato di un caccia che si impennava verso il cielo a pochi metri dal nostro elicottero.
Atterrati a Bala Murghab Portolano mi spiegò: era arrivata poco prima la soffiata che lungo la rotta dell’elicottero ci aspettava un nucleo di brave persone dotate di missili terra-aria in grado di non lasciare scampo al nostro elicottero. Allertata la base aerea americana, un caccia era decollato con fulminea tempestività e aveva convinto il gruppo in agguato che non era il caso di reiterare, sempre per l’eternità, operazioni analoghe.
Arrivati a Bala Murghab e sparsa la manciata di terra sarda nel punto dove Luca Sanna era stato ucciso con una raffica di AK 47 da un giuda afgano col quale aveva condiviso fino a quel giorno ore e ore di pattugliamento anti-talebano, rientrammo ad Herat, in tempo per far visita nell’ospedale militare a un soldato afgano orrendamente ferito al volto e ad un bambino di cui mai scorderò il dolcissimo sorriso di una tristezza infinita.
Mi cascano le braccia a mettere a confronto questi miei modesti ricordi e quelli più significativi espressi il 23 marzo scorso su Difesa Online dal soldato che ha detto la sua agganciandosi al noto incidente di Vivaro, e mettere il tutto a confronto con l’affermazione “quando ci chiamano a partecipare a missioni all’estero, ci affidano ruoli secondari, tipo ecc ecc…”.
Forse sarebbe utile che i giornalisti e i politici che auspicano un soldato italiano dedito a opere buone nel ruolo di longa manus della protezione civile meditassero su queste note e sull’essenza dell’essere soldato, nonché sulla necessità di avere forze armate credibili, perché tutto va bene finché non è necessario far pesare la propria credibilità politica e militare sui tavoli internazionali. Ma se la politica e la stampa perseguono il coinvolgimento permanente dei militari in compiti di pertinenza di altri ministeri, tanto vale abolire le stellette, come si fece 40 anni fa per la polizia, anche per le forze… armate ma non troppo o anche armate sì purché non...
Un cenno a parte merita la figura del militare operatore sanitario. Va de sé che questa versione esalta in massima misura l’idea dell’emergenza che giustifica l’adozione di misure straordinarie quali la limitazione delle libertà individuali, il rinvio di elezioni e il controllo dell’informazione, privilegiando alcune problematiche e penalizzandone altre, quali la povertà assoluta di 5 milioni di italiani, la rinascita dell’immigrazione clandestina e il rinvio delle elezioni.
Si ha la sensazione insomma che quel che serve al politico è soprattutto l’immagine della tuta da combattimento che si occupa di compiti di competenza altrui, ma in tal caso il militare deve stare al gioco politico che richiede di condizionare e veicolare l’informazione e manipolare i numeri, censurandone alcuni ed enfatizzandone altri; esigenze forse necessarie ma incompatibili con l’etica militare.
Va da sé che finché l’attenzione e il consenso politico nei confronti delle stellette resteranno quelli attuali, per il soldato si prospettano tempi grigi. D’altra parte il popolo tutto è consapevole che la preoccupazione prioritaria della classe politica è quella di perdere anzitempo il reddito di cittadinanza di calibro parlamentare di cui gran parte dei politici gode per grazia ricevuta. Ed è altrettanto significativo che finché il sostegno dell’informazione si tradurrà nell’auspicare la scarcerazione immediata di un ufficiale che per 5.000 euro ha venduto documenti classificati a un agente straniero (“una montatura indegna”, così la definisce Libero), il soldato è tentato di condividere questo auspicio. Ma sì, in fondo era solo un disperato che aveva bisogno di soldi, perché con quattro figli e quattro (diconsi 4) cani non è facile tirare avanti.
A questo punto: buona fortuna Italia!
Nicolò Manca
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