Con la proposta di legge sulla mini naia, preannunciata dal presidente del Senato, si vuole ripristinare la Leva, ma in forma non obbligatoria e per una durata di “servizio” di quaranta giorni, per contingenti limitati di volontari. Si apprende che essa ha come scopo di promuovere il senso civico e l'amor di patria. E per fare questo si ricorrerebbe a una esperienza diretta, sul campo, dei valori della cultura militare, ritenuti formativi, ovvero utili anche fuori dalla realtà del mondo delle stellette.
La motivazione di tale iniziativa rende onore alla condizione militare, come qui da noi è concepita e organizzata. Il soldato italiano opera in base al dettato costituzionale dell'articolo 52 (La difesa della patria è sacro dovere...) che si integra con l'articolo 11 (l'Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali...), il quale stabilisce anche … limitazioni alla sovranità nazionale necessarie per la pace e la giustizia tra le nazioni. Dunque, l'Italia ha una vocazione non clausewitziana, nel senso che non equipara la guerra alla politica (la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, dice il Clausewitz), ma la ripudia. Peraltro non negandola come fenomeno in sé, quale possibile accadimento, per cui la difesa armata dello Stato è sempre prevista ed è dovere di ognuno parteciparvi (dovere temperato dalle norme che regolano l’obiezione di coscienza). Da tale dettato discende il corpus giuridico del Codice dell'Ordinamento Militare e relativo regolamento di applicazione (D.Lgs. 66/2010 e D.P.R. 90/2010) che, tra l'altro definisce i compiti delle forze armate, e comprende il Regolamento di Disciplina Militare. Tale insieme di norme, cui occorre aggiungere la dottrina militare (strategia, arte operativa, tattica, procedure tecniche...) nel suo insieme costituisce il complesso dei “valori dichiarati” della cultura organizzativa militare nazionale.
La componente etica e deontologica trova puntuale enunciazione negli stessi regolamenti e procedure codificate, ma anche negli “assunti taciti condivisi” tra il personale militare, spesse volte espressi negli “artefatti”, come la cerimonia dell'alzabandiera1. Dunque, il progetto è che tale contesto culturale, ricco di significati, andrebbe partecipato ai giovani della mini naia, per fornire loro un'occasione di esperienza vivificante, tesa a ispirare il senso civico e l'amor di patria.
Entrando nel merito, all'essenziale, lo spirito militare consiste nella coscienza di dover compiere il proprio dovere, all'interno della comunità militare, quindi in una condizione di condivisione di impegno; tenendo conto del fenomeno guerra, che un militare sa essere realtà immanente, ovvero imprescindibile, considerando quindi l’esposizione al rischio della vita; agendo in ogni circostanza con disciplina convinta e determinazione (assolvimento della missione), ovvero nel rispetto puntuale delle norme costituzionali, ordinarie e regolamentari che definiscono il Diritto, il Diritto Internazionale Umanitario e la vita militare in generale. L'amor di Patria è un sentimento consono a quest'orientamento, generato dal senso di appartenenza allo Stato, realtà edificata dalle generazioni che ci hanno preceduto e riconosciuta come ente necessario per vivere in pace e prosperità. Le scuole militari, le accademie e i corpi (reggimenti e unità equivalenti) inculcano questa fenomenologia, cui si aderisce formalmente e sostanzialmente quando si presta giuramento. Ora, la mini naia vorrebbe diventare un momento d'incontro con tale contesto valoriale, da accostarsi tramite un'esperienza operativa.
Poiché ogni individuo è portatore di una propria fenomenologia culturale, frutto dell'ambiente in cui si vive (oggi anche ambiente virtuale, con la pressione mediatica creata da influencer e altri soggetti latori di tendenze, alla portata di tutti tramite i dispositivi di cui siamo dotati), e dell'educazione ricevuta, occorrerà gestire, nel contesto della caserma e nell'arco di quaranta giorni, un confronto tra culture diverse affinché, criticamente, il neofita prenda coscienza della base valoriale della condizione militare e l'accolga nel proprio processo di formazione basato sulle esperienze. Dunque, comunicare a dei giovani desiderosi di compiere tale esperienza la componente etica e deontologica delle forze armate italiane, nel tempo disponibile, costituisce il focus del provvedimento, e riuscirci adeguatamente si prefigura come un'operazione impegnativa per complessità e portata. Peraltro, ipotizzando la mini naia come un'attività volontaria, è presumibile che chi vi parteciperà sarà già ben orientato.
Diverso era quando le forze armate inquadravano i coscritti tramite il sistema della Leva obbligatoria e i comandanti dovevano motivare i soldati nell'agire quotidiano e a eseguire l'addestramento e i servizi di caserma e presidiari. Ma vi si riusciva, con soddisfazione, come risulta oggi palese dalla frequentazione di ex coscritti alle numerose associazioni d'arma.
Ciò detto, una digressione è ora d'obbligo. Argomentando di valori della condizione militare italiana2 suona strano, semanticamente dissonante, il termine di mini-naia.
"Naia" è una parola desueta, che origina da alcuni assunti taciti e condivisi negativi di un tempo ormai remoto, ed esprime l'abiezione per un certo tipo di rapporto gerarchico. La sua radice alligna nel dialetto veneto, friulano (pare che la parola naia fosse stata inventata dagli alpini della Grande Guerra) e sta per genia, semanticamente un'accezione negativa di gerarchia. Sotto naia significa essere sottoposti a qualcuno che svolge l'azione di comando, appartenendo appunto alla genia dei superiori in grado: dietro ai cannoni, davanti ai cavalli e ...lontano dai superiori, recitava un adagio di caserma, appunto di quell'epoca. Dunque, pur connotandosi talvolta come modo di dire scherzoso, il termine naia racchiude un’accezione negativa.
Altrove si disse “siamo uomini o caporali?”. Ancora oggi è uso corrente e, ahimè accettato unanimemente, appellare 'caporali' i procacciatori di lavoro (talvolta sottopagato e sovente privo di tutele) ai nostri immigrati, nelle colture nostrane. Problema semantico non da poco quello del termine naia, dunque, che andrebbe risolto. Per questo, di seguito, appellerò l'iniziativa con “servizio militare occasionale”, auspicando che l'estensore della norma saprà trovare parole più appropriate.
In quaranta giorni e con i condizionamenti del caso non si può pensare di operare né un processo formativo né il conferimento di competenze. La formazione richiede processi lunghi e l'acquisizione di competenze militari presuppone lo studio e la pratica di un ampio spettro di processi, nonché l'uso di attrezzature sofisticate.
Nel caso del servizio militare occasionale, le categorie del “saper fare” e “saper essere” sarebbero sostituite da una breve esperienza dell'ambiente di caserma, con qualche visita alle aree addestrative, ove disponibili. L'addestramento di fanteria, basilare, potrebbe costituire, per l'Esercito, l'unica formula da adottarsi. Tralasciando superflui esercizi d'istruzione formale - sarà sufficiente l'attenti, il riposo e il saluto, per la cerimonia dell’alzabandiera -, potranno prevedersi maneggio dell'arma individuale ed esecuzione di semplici esercizi. I volontari opererebbero inquadrati in unità del livello squadra e plotone, secondo l'organizzazione della fanteria leggera. Nel fare questo essi sperimenterebbero, in particolare, la vita di gruppo e il rapporto gerarchico con un l'istruttore a loro assegnato.
Ma occorre anche considerare che la principale criticità di questo progetto la si trova nella sua brevità. I processi formativi adottati dalle forze armate si sviluppano, necessariamente, attraverso corsi pluriennali svolti nelle accademie militari. E proseguono presso le unità d'impiego sotto la supervisione di comandanti chiamati a giudicare l'operato dei subordinati, e, così facendo, a determinarne lo sviluppo di carriera. Invero, ci si abituerà in una settimana al regime orario della caserma, ma occorrerà molto più tempo per assumere la frugalità, l'essenzialità tipica di un soldato che deve potersi adattare alle situazioni più disagiate, unitamente alla forza d'animo necessaria per assolvere i compiti istituzionali critici, come le missioni prolungate, se non anche il combattimento. Occorreranno poi anche esperienze limite per comprendere quali siano le proprie capacità a livello fisico e psicologico e poco alla volta superarli con l'esercizio, per raggiungere gli standard prescritti, ovvero funzionali all'assolvimento dei compiti militari.
Per quanto attiene poi all'assimilazione del senso dello Stato, dell'amor di Patria e del rispetto delle Istituzioni, dipenderà da come la coscienza di ogni singolo individuo valuta giorno per giorno il confronto con la realtà fattuale in cui si vive, di cui i quaranta giorni di training militare possono costituire solo un breve segmento.
In dodici mesi di servizio di leva, questo processo formativo, con ragionevole dosatura, veniva compiuto a favore della leva di un tempo, e la componente operativa delle forze armate era effettivamente una palestra per la formazione del carattere. Lo era, in particolare, se si prestava servizio in unità di spiccata operatività, dove l'addestramento veniva condotto a ritmo elevato. Invece, chi un domani inquadrerà i volontari del servizio militare occasionale dovrà saper dosare qualche momento addestrativo con l'illustrazione di una panoramica sulla vita militare, per forza di cose molto sommaria, nel tentativo di generare un'esperienza significativa, ma non più di questo potrà in pratica esser fatto.
Sarà sufficiente per raggiungere lo scopo dichiarato? La Leva di un tempo, solo sospesa e mai abolita, oltre a mantenere in vita uno strumento militare in grado di operare nell'ambito della difesa collettiva - si era in Guerra Fredda - svolgeva anche la funzione di tenere a regime unità quadro predisposte in tempo di pace per la mobilitazione in caso di conflitto. Si ricorderà che nei diciotto, poi dodici, quindi dieci mesi di servizio militare, si creavano tutte le competenze necessarie al funzionamento di unità organizzative complesse, autonome, capaci di svolgere numerose attività tattiche, ovvero vivere, muovere e combattere. E quelle unità venivano anche validate in termini di efficienza operativa sia in ambito Alleanza Atlantica che a livello nazionale. Viceversa, l'istituto a cui oggi si pensa non potrà sopperire ad alcuna esigenza funzionale delle forze armate perché quaranta giorni di attività, per quanto ben programmati, non consentiranno lo sviluppo di competenze militari, nemmeno solo a livello individuale. Invece esso porterà un onere aggiuntivo alle forze armate per impiego di risorse: personale istruttore e d'inquadramento, materiali, mezzi, caserme e aree addestrative già ora difficili da reperire, oltre ai costi in termini finanziari.
Si palesa così, nuovamente, un ruolo dual use delle forze armate, chiamate qui a fornire un servizio alla nazione in termini di processi di socializzazione primaria/secondaria a favore di giovani volontari, processo ora estraneo ai compiti istituzionali.
Ma si potrebbe ipotizzare di costituire tramite il servizio militare occasionale un bacino di riservisti per alimentare, all'occorrenza, unità quadro, oppure integrare quelle già in vita? La creazione di un bacino di riservisti richiederebbe un ventaglio di predisposizioni veramente ampio: reiterazione dei periodi di richiamo per conferire competenze reali, inserimento di corsi di specializzazione per l'acquisizione delle capacità di maggiore complessità, ma anche costituzione di basi logistiche per la gestione di un parco materiali di mobilitazione. E, prima ancora di tutto questo, la ricostituzione di un sistema burocratico di mobilitazione, opportunamente integrato con il territorio, sul modello di quello già esistente prima della sospensione della Leva. Quindi le persone andrebbero motivate ad aderire ai richiami in servizio con incentivi adeguati, da introdurre nel nostro ordinamento.
Ma la mobilitazione sarà poi necessaria, ovvero utile al nostro Paese? Quante forze occorrono per fronteggiare, oggi, un ipotetico conflitto? E come devono essere queste forze? Per rispondere a queste domande occorre riferirsi alla politica di difesa e sicurezza nazionale, alla valutazione dei rischi e delle minacce, tenendo conto del posizionamento internazionale.
L'Alleanza Atlantica, come noto, ha natura difensiva e prevede la difesa comune, ovvero la condivisione degli oneri in caso di conflitto. L'Italia vi ha aderito dal primo momento, accogliendo anche il vincolo esterno della cessione di sovranità, limitata e funzionale alla pace e alla stabilità internazionale. Quindi, è principalmente in quella sede che andrebbe valutata l'entità che deve possedere lo strumento militare, per risultare credibile negli attuali scenari geopolitici. Infine occorre considerare l'impiego che si potrebbe fare dei riservisti. La storia militare può fornire indicazioni al riguardo, ma anche il conflitto in corso in Ucraina è dirimente. Lì, vedendo all'opera diverse tipologie di combattenti, è possibile valutare che quelli più esposti sembrano appunto i riservisti, perché addestrati sommariamente, portati al fronte e inseriti in unità prive di forti legami di tenuta, di spirito di corpo. Tutto questo li rende vulnerabili di fronte al nemico, ma anche inadatti nell'affrontare le condizioni ambientali più ostili e la vita di trincea. Ciò significa che, in guerra, i riservisti costituiscono l'anello debole della catena delle capacità militari che lo Stato mette in campo. Ciò accade ancor più facilmente quando le predisposizioni adottate per creare questa componente non sono adeguate agli scenari tipici del warfighting. In tale prospettiva, a mio parere sarebbe da escludere l'uso del servizio militare occasionale per alimentare un bacino di riservisti.
La cultura organizzativa militare è un fenomeno dinamico, in continua trasformazione, che può volgere verso guadagni di efficienza, la quale è sempre sintonica ai contenuti valoriali; oppure dirigere la sua traiettoria verso un'involuzione, una caduta di efficienza delle strutture, generando un clima interno sempre più disfunzionale, che vede inevitabilmente l'affievolirsi dei valori di base e della deontologia. A incidere, in un verso o nell'altro, possono essere cause esterne, tra cui la politica militare, la cura dello strumento da parte dei decisori politici che ne hanno la responsabilità, e cause interne: l'azione di comando, la qualità del personale, l'uso delle risorse disponibili e l'addestramento.
Se si ipotizza oggi di ripristinare una se pur parziale forma di Leva, con finalità educative, alla base c'è il riconoscimento di un valore. Il merito va tributato a coloro che, più esposti, hanno saputo mostrarlo e comunicarlo compiutamente. Penso a quanti, anche nelle così dette missioni di pace, sono caduti in servizio, o hanno riportato ferite, nell’adempimento del dovere. Ma anche a tutti gli altri che hanno sostenuto lo sforzo organizzativo complessivo. E come non richiamare alla mente chi, in occasione di pandemia o di calamità naturali, ha mostrato l'efficienza dello strumento militare.
Quale sarà nel merito la scelta finale del Legislatore, ora non è possibile sapere. Tuttavia l'auspicio è che il riconoscimento delle virtù militari alle nostre Forze Armate sostenga anche una politica militare illuminata ed efficace, a tutto tondo, tale da preservare la ricchezza spirituale della condizione militare, con le sue peculiarità, e contemporaneamente garantire l'efficienza dei dispositivi, come una visione strategica chiara e lungimirante oggi impone.
gen. c.a. (ris.) Antonio Venci
1 Chi volesse approfondire la Cultura Organizzativa Militare ne troverà argomentazione in: Centro Studi Esercito. “Cultura Organizzativa Militare”. (https://www.centrostudiesercito.it/cultura-organizzativa-militare.html).
2 Si parla di cultura organizzativa militare italiana perché, come già richiamato, essa si fonda su leggi e norme vigenti qui da noi. Dunque, ogni Paese ha la sua cultura organizzativa militare, anche se le similitudini sono numerose, in particolare nelle manifestazioni esteriori degli artefatti.
Foto: Esercito Italiano / web / ISAF