Ore 6. Il biglietto si fa dall’autista, signore brizzolato che non ride da alcuni anni. Costa 150 grivnia, quasi 5 €. Il bus è tedesco, ex DDR. Del filo spinato a un funerale d’inverno metterebbe più allegria, ma ha il suo fascino. Sopra siedono in silenzio otto babushka, signore anziane col fazzoletto in testa. Ci sono anche altre donne più giovani e quattro uomini. Tutti senza fazzoletto ma con la testa. L’unico senza testa devo sembrargli io. La domanda “che ci fa questo qui?” dura il tempo di guardarmi da sopra gli zigomi tagliati con l’accetta. Da queste parti sono più severi che curiosi.
Dal marciapiede alcuni salutano, altri si segnano tre volte alla maniera ortodossa, si sbracciano, si commuovono. È il classico sintomo di un viaggio tranquillo. Che non sia la corriera per il mare del resto, si capisce subito.
Alle 6,54 si parte. Da Kramatorsk a Donetsk sono 100 km. Ci vorrebbe un’ora e mezza ma in realtà è previsto un leggero ritardo: circa sei ore. Bisogna capire però, perché sul tragitto ci sono tre check-point ucraini e quattro dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk.
Steppa piatta e grigia con macchie di neve rappresa fuori. Il bus rallenta e rimbalza. La strada solo un anno fa era perfetta e liscia. Ora di quel biliardo sono rimaste solo le buche…
Al primo check point sale un armadio in mimetica e passamontagna nero. Ha un kalashnikov a tracolla. Mi vede e mi chiede i documenti. Controlla il lasciapassare, il passaporto, la press card e poi esclama qualcosa in ucraino.
Potrebbe aver detto:
- appena finisco il turno, mi metto le infradito e me ne vado al mare
- questo è una spia
- questo è scemo
Il fatto che mi restituisca il passaporto accredita la terza ipotesi.
Sul bus non vola una mosca. Evito di dirlo perché la parola Mosca è rischiosa. Andiamo a Donetsk controllata dai filorussi, ma qui è ancora territorio ucraino.
L’armadio scende e il bus riparte vibrando. La media è 50 km/h ma quando facciamo i matti, arriviamo anche a 55.
Il paesaggio ricorda la Bassa padana in formato XXXL. Il cielo è color baffetti di topo.
Il bus carica buste con cibo e vivande. L’autista urla solo consonanti e dalla porta aperta entra un freddo di ferro. Mettersi vicino allo spiffero è una mossa astuta…
La pianura prosegue con caseggiati dalla tipica solarità sovietica.
All’ultimo check point ucraino campeggiano blindati BMP interrati, mitragliatrici e artiglierie. Grigio e verde sono ovunque. Vorrei fare delle foto ma ho solo tre possibilità:
- essere rispedito indietro
- farmi sequestrare la macchina fotografica ed essere preso a calci
- entrambe le cose
Non so perché ma decido di non fotografare.
Campi arati, fabbriche a carbone e voragini di bombe. È la terra di nessuno. Oltre ci sono i filorussi; alle spalle, l’esercito ucraino.
Al primo posto di blocco della Repubblica di Donetsk tutti i maschi devono scendere.
I soldati hanno una lista per verificare i passaporti. Le mimetiche sono russe e i patch delle divise hanno i colori rosso e blu del Donbass.
Al quarto check point i maschi scendono ancora per la perquisizione delle borse. Di lato ci sono due carri T 72 fuori combattimento.
Sono seguito a vista da un militare giovanissimo: non vuole foto alle armi pesanti. È gentile e ci tiene a spiegarmi che è nato a Donetsk e che non ci sono russi al fronte, ma solo gente del posto. Io invece gli dico che non sono del posto, ma la cosa interessa fino a un certo punto anche perché nessuno osava metterlo in dubbio. Provo simpatia per questi ragazzi, timidi, disciplinati e cordiali.
L’autista s’incazza perché a bordo manco solo io. Gli spiego che per colpa di una foto una volta ho perso la corriera per andare al mare. Non gli interessa molto. Si riparte.
Finalmente Donetsk. Già alle 18 non gira un’anima e le rare auto vanno a 120 km/h.
Alla stazione dei bus prendo un taxi e inizio il giro degli hotel.
Quelli rimasti aperti hanno prezzi folli: il Central un anno fa costava 25 €, ora chiede 150 $ a notte. C’est la guerre…
Stampa e TV sono al Ramada. Parlano di tregua dietro giubbotti antiproiettile e amenità varie. Tra loro, la percentuale di coglioni raccomandati oscilla tra alta e molto alta.
Io starò un mese e mezzo in un appartamento del centro. Per 130 € ci può stare. Al mare dalle parti nostre in fondo, costa molto di più.
Il wifi, è nella pizzeria di fronte. All’ingresso un cartello invita a non entrare col kalashnikov; in compenso si può fumare. Ognuno tutela la salute a modo suo.
Mi butto sul letto, distrutto. Di notte si sentono mille tuoni, ma non piove. Forse perché è tempo di neve. Forse perché non sono tuoni, ma artiglieria. È difficile distinguere se sia ucraina o filorussa. Nel dubbio penso a tutte e due. Gli accordi di Minsk sono una strimpellata che fa sorridere.
Dormo con un po’ di apprensione. Non me ne vergogno. Il coraggio è superarla, non esserne immuni.
(continua)
articolo Giampiero Venturi
foto Giorgio Bianchi