I vantaggi di non avere una politica estera sono riassumibili essenzialmente in tre punti:
- Si risparmia un sacco di tempo;
- Ci si può affidare alla buona stella, confidando in quella degli altri;
- Si evita la fatica di criticarla.
Con questa premessa torniamo in Libia, porta d’accesso alle questioni africane, con un’analisi articolata in due tempi.
Nell’autunno del 2011 cadevano Gheddafi e il IV° governo Berlusconi. Senza entrare nel merito degli esecutivi e degli scherzi del destino, guardiamo alle bozze di politica estera italiana di quei giorni, origine dell’attuale scenario nel Bel suol d’amore.
Parliamo di bozze perché è più facile trovare un cinese riccio e biondo che riconoscere un atto indipendente della Farnesina da Yalta e soprattutto dalla nascita della NATO in poi.
A tutt’oggi la Crisi di Sigonella dell’85, con i carabinieri che circondano i SEALs americani sulla pista dell’aeroporto, rimane l’unica azione italiana contraria alla volontà USA dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi.
Se Yalta e Washington non fossero bastate, col Trattato di Maastricht del ’93 (evoluzione da CEE a Unione Europea) abbiamo accettato il travaso da Roma a Bruxelles di altra sovranità nazionale. Stessa cosa vale per altri passaggi successivi come l’entrata in vigore di Schengen, la creazione della BCE, l’assunzione dell’Euro o la firma del Trattato di Dublino, tanto per citare i più noti all’opinione pubblica. È bene considerarli non tanto alla luce delle conseguenze generate, quanto per il loro significato: la rinuncia a una parte considerevole dell’indipendenza degli Stati dell’Unione.
È un cammino preciso che pur senza consultazione popolare l’Italia ha accettato (più o meno) consapevolmente.
Se pensiamo alla stretta dipendenza strategica tra Bruxelles e Washington viene da sé che ogni atto politico nazionale esterno agli assetti raggiunti in sede europea, non contrasti solo con la logica di un’Unione compatta ma rischi di entrare in contrasto con l’intero equilibrio geopolitico mondiale. Quell’equilibrio unipolare che si è configurato dal ‘91, con la fine dell’URSS e la nascita del superpoliziotto planetario americano.
Non è facile quantificare l’angolo di divergenza tra i governi Berlusconi e le cancellerie più europeiste. Tantomeno stabilire in che misura il passaggio alla “contabilità” del governo Monti sia dipesa da quell’angolo o dal reale stato delle finanze pubbliche. Possiamo però sostenere che i timidissimi cenni di politica estera degli esecutivi Berlusconi gelarono gli appoggi internazionali utili alla loro stessa evoluzione. L’amicizia personale con Vladimir Putin e lo sdoganamento di Gheddafi pesarono molto, questo è sicuro.
In entrambi i casi si trattava di sviluppo di relazioni diplomatiche bilaterali ben oltre i normali rapporti protocollari buoni per uno scambio di regali e una conferenza stampa congiunta. Un dinamismo diplomatico inusuale per l’Italia, fuori dal corridoio stretto previsto da Bruxelles e indirettamente dagli USA. Così stretto che lo stesso governo italiano nel marzo del 2011 fu forzato ad aderire alle operazioni in Libia prima con Odissey Dawn e poi con Unified Protector, allineandosi alla brama d’intervento francese e alla NATO, rinunciando de facto agli interessi nazionali nell’area. Un’adesione all’italiana sul modello “mandiamo gli aerei ma solo per un giretto…” oppure “bombardiamo ma facciamo piano…”… ma comunque un’adesione.
In pochi giorni abbiamo visto evaporare le visite a Roma di Gheddafi del 2009 e 2010 che al prezzo di pagliacciate e umiliazioni (la foto di Al Muktar sul bavero del colonnello, hostess costrette a subire lezioni di Corano…) avevano fatto immaginare una nuova realpolitik italica nel Mediterraneo. Una politica concreta più tesa a colmare il deficit energetico dell’Italia che ad apprezzare le buffonate di un leader, comunque in debito perenne con Roma.
L’impossibilità e la disabitudine di avere una politica estera indipendente hanno obbligato l’Italia a digerire lo “scippo francese” sulla questione libica e il raffreddamento delle relazioni con Mosca, creando due deficit strategico-energetici di rilievo.
In particolare la gestione della fase libica ha mostrato l’impossibilità italiana di collocarsi in modo autonomo, sia sposando una linea interventista, sia negandola. Nella prima ipotesi, anticipando la coalizione come fece l’Armée de l’air francese, incurante degli accordi con gli alleati. Nella seconda, opponendosi all’operazione o mantenendo una posizione defilata.
Nel 2011 l’Italia ha mostrato, senza che fosse necessario, di non avere margini di manovra nel mondo delle relazioni internazionali. Considerato l’altare pacifista a cui ogni governo progressista deve in qualche modo sacrificarsi, gli esecutivi successivi sono riusciti a fare anche peggio. In altri termini, alle polveri bagnate per impotenza, si è sommata anche un’endemica riluttanza all’azione.
Alle sfilate militari si è sostituita la parata delle dichiarazioni, con sommo gaudio di grammatici e studiosi del linguaggio.
L’intervento del ministro Gentiloni in merito alla soluzione del problema scafisti si sintetizza in un “li colpiremo ma non li colpiremo…” superato solo dal ministro Mogherini smentita da Inglesi e Francesi 30 secondi dopo aver assicurato l’accordo sulle quote di migranti provenienti dalla Libia.
Sigonella così rimane lontana. Se il guinzaglio della Farnesina e di Palazzo Chigi all’epoca sembrava corto, ora che la Guerra Mondiale è trent’anni più lontana, per assurdo sembra cortissimo.
Sarà l’Africa che spinge, ma la Libia diventa sempre più vicina.