Si continua a parlare di Russia e di Ostpolitik sotto diversi profili, non di rado storditi da filtri mediatici discutibili. Sempre più spesso nei dibattiti emerge un’idea difficile da contestare: ragionare ancora come fossimo nel ‘900 fa gli interessi di tutti tranne che dell’Europa.
Vediamo meglio.
Dai tempi di Pietro il Grande all’era Putin, nell’immaginario collettivo (e nei desideri) dei Russi due cose vanno difese su tutto: il genoma russo e l’Impero.
Nel conteggio è compresa la lunga parentesi sovietica, tanto che alla parata del 9 maggio le aquile imperiali e le bandiere rosse sfilano vicine.
Santa Madre Russia non è quindi un’imprecazione ma un’idea che vola oltre l’ideologia e le generazioni al potere.
Approccio retorico quanto si vuole, ma comunque basato su un sentimento ampiamente condiviso.
Che la logica imperiale affondi nell’incoronamento di Vladimir I a Kiev, nei personaggi di Gogol o nella tradizione contadina, interessa fino a un certo punto: per la stragrande maggioranza dei Russi la Patria è sacra e va difesa col sangue. Il contesto internazionale attuale investe questa idea di un valore più alto, forse inatteso dallo stesso Cremlino.
La Russia di oggi, volente o meno, incarna la difesa di principi per secoli baluardo dell’Occidente ma di cui lo stesso Occidente oggi sembra essersi stancato.
“Per la Fede, per la Patria e per lo Zar” recita l’antico motto dei Cosacchi, variante del “Dio, Patria e Famiglia” occidentale.
Che la visione trinitaria sia spartita o una (punto d’attrito fra Ortodossi e Cattolici) non fa testo. Il punto è che se fino a poco tempo fa lo slogan era buono per esibizioni in maschera e sagre della steppa, oggi ritorna forte tra scuole, accademie e patrocini di Stato che spuntano come funghi sul territorio della Federazione. Soprattutto al Sud, dove il pentolone caucasico bonificato con la Seconda Guerra Cecena è sempre pronto a bollire per scodellare islamismi e separatismi.
Il recupero dei Cosacchi paladini della Cristianità più conservatrice dopo decenni di persecuzioni sovietiche, non è un tributo al folk di provincia. Rientra nel piano di recupero delle tradizioni e di consolidamento del tessuto nazionale che riesce a mettere insieme i simboli della reazione pura con le eredità militari dell’URSS, per forza di cose ancora presenti in Russia. Tutto fila se si pensa che l’Impero non ha ideologie oltre a se stesso.
Difficile da accettare per i sistemi che si esprimono con le regole di Bruxelles e i parametri di progresso dell’amministrazione Obama. La Madonna del Don e la šaška cosacca mal si coniugano con la secolarizzazione, l’egalitarismo culturale, la società multietnica e la famiglia fai da te, orizzonti spasmodicamente rincorsi dalle élite al potere a Occidente.
La Russia, con caratteristiche e contraddizioni tutte sue, rappresenta nel bene e nel male una frontiera ideologica, linea dell‘ultimo lembo di tradizionalismo ancora vivo nel mondo. Almeno di quello in grado di difendersi.
Altri piccoli feudi di resistenza tradizionalista sparsi per il globo non hanno voce e sembrano destinati a scomparire con le spinte culturali di un sempre più aggressivo Villaggio Globale.
Il nuovo asse rosso-bruno che unisce l’Europa geografica e gli interessi euroasiatici opposti alle dinamiche atlantiche nate nel Secondo Dopoguerra è un pensiero de facto.
La fine della Guerra Fredda ha spostato l’asse geopolitico, lasciando nel cuore del Vecchio Continente un enorme vuoto. In questo spazio la retorica antirussa condita da scenari di crisi reali serve a tenere in vita un sistema di contrapposizioni che fa gioco essenzialmente agli Stati Uniti.
Washington sa benissimo che per chiudere le basi militari in Europa ci vuole una firma ma per riaprirle, un’altra guerra mondiale.
Il modo più indolore per mantenere lo status quo è alimentare una continua Questione Orientale, eterna orfana di un nemico: chi meglio della Russia retriva e bellicosa?
Che l’orso sia rosso o russo non fa differenza; importante è che ce ne sia uno minaccioso da cui difendersi. Quanto quest’ottica sia condivisa dalle opinioni pubbliche occidentali è tutto da vedere.
Fatti salvi i Paesi direttamente offesi dall’imperialismo russo-sovietico (repubbliche baltiche e Polonia su tutti) è difficile identificare una massa coesa sui nuovi scenari da guerra fredda.
Due esempi opposti tra loro valgono su tutti:
L’Ungheria memore dai carri sovietici del ’56 e storicamente più vicina alla principessa Sissi che ai colbacchi, oggi guarda alla Russia di Putin come modello. L’ultra cristiano e nazionalista Orban non nasconde di essere in rotta con Bruxelles. La Grecia di Tsipras, accerchiata dai conti e da un sistema non suo, è sempre più tentata da strappi traumatici, su cui i venti di Mosca soffiano forte.
Per essere due membri NATO, non c’è male.
Più che una polverosa contrapposizione fra Est e Ovest, tenuta in vita dagli USA secondo interessi comprensibili, sembra sempre più attuale uno scontro fra culture moderniste, incarnate nelle generazioni sessantottine al potere in Occidente e un blocco trasversale (con la Russia capofila) che prova a rilanciare i principi attorno cui la società europea ha ruotato per secoli.
Non a caso la Russia odierna è un fastidio per due aree ideologiche fino a ieri in forte contrasto: la sinistra laicista progressista e il pensiero borghese liberal democratico.
Entrambe incarnate dagli inciuci trasversali al potere in molti Paesi europei, sembrano spesso espressione di sistemi volti più che altro a sopravvivere, senza la ricerca di un equilibrio di valori reali e duraturi nel tempo.
Giampiero Venturi
(foto: Cremlino / web)